Chiunque abbia guardato questa clamorosa gara 6, sicuramente non può negare il cuore infinito di questi Cleveland Cavaliers. A differenza dei cinque episodi precedenti di queste NBA Finals, che senz'altro finiranno nella storia del gioco e dello sport in generale, si è vista una squadra vera in entrambi i lati del campo, e non un uomo solo al comando come LeBron James e i suoi scudieri specializzati nell'occupare i listelli di parquet della metà campo offensiva, mentre il Re provava ad attaccare, spesso senza coscienza e senza grosse chances di portare punti alla causa di David Blatt. In questa occasione si sono visti i Cavs nella loro totalità, con dei passaggi a vuoto clamorosi ma anche con dei momenti di vera e propria "marea" cestistica. E lo sfogo di LeBron, che si è quasi certamente abbandonato ad un pianto pieno di amarezza nell'ultimo timeout della gara, racchiude tutta la voglia del numero 23 di portare per la prima volta a Cleveland questo titolo che ora prende le sembianze di un fantasma che infesterà i suoi sogni, almeno per le prossime settimane.

I Cleveland Cavaliers hanno giocato una serie forse al di sopra delle proprie effettive possibilità, con una squadra ridotta all'osso e che ha perso due giocatori in grado di mettere a referto tanti punti, quelli che sono mancati alla squadra di David Blatt in alcuni momenti chiave della serie. Diciamocela tutta, gente come Kevin Love e soprattutto Kyrie Irving è mancata a Cleveland contro i Warriors: se l'ex giocatore dei T'Wolves avrebbe dato grande presenza a rimbalzo (che certamente non è mancata in queste Finals) ma anche la possibilità di allargare il campo per le penetrazioni di LeBron e per poter prendere qualche tripla in più, l'assenza di "Uncle Drew" si è sentita pesantemente, vista la sua capacità di fare da termometro al gioco offensivo dei Cavs e di poter stampare doppie-doppie punti-assist come se piovesse. Dellavedova ha fatto quello che ha potuto, con una difesa su Curry che a tratti è stata degna di una guardia carceraria, ma con una gestione dell'attacco, suo e di tutta la squadra, che ha messo a nudo i suoi limiti. Ma in generale, giocare con due soli ricambi dalla panchina è difficile per chiunque, anche se in squadra hai un uomo che fa LeBron di nome e James di cognome.

Ed è stato bravo il fenomeno di Akron a provare a coinvolgere i propri compagni in questa gara 6, sia con la palla in mano e con degli assist pazzeschi, sia lontano dal fulcro dell'azione con blocchi e con un uomo costantemente addosso che lasciava un po' più di spazio a centro area per i vari Mozgov e Thompson, o sull'arco per Shumpert. Neanche a dirlo, però, quando c'è da entrare nella lotta e dimostrare il proprio valore, è venuto meno J.R. Smith. Quello che, doti tecniche e atletiche alla mano, dovrebbe essere il secondo violino di questi Cavs falcidiati da infortuni e sfortune varie, anche in questa gara 6 è sparito letteralmente dal parquet, tanto che Blatt lo ha lasciato a lungo in panchina, soprattutto quando, nel secondo quarto, la sua squadra ha rimontato dal 15-28 con cui si è chiuso il primo periodo fino a portarsi addirittura in vantaggio in avvio di terzo quarto. E per uno Smith che sparisce, c'è stato questa notte il clamoroso contributo di Tristan Thompson e Timofey Mozgov: rimessi sul parquet insieme nel quintetto iniziale, dopo che quest'ultimo era stato tenuto a lungo fuori dalle rotazioni in gara 5, la rimonta di cui abbiamo parlato pocanzi è dovuta proprio al lavoro clamoroso dei due lunghi sotto entrambi i canestri.

Ovviamente, poter contare solo su sette giocatori nell'arco di 48 minuti, con Mike Miller che è tornato a fare compagnia a gente come Perkins e Marion nella 'banda degli sventola-asciugamani', porta dei limiti pazzeschi in termini di lucidità e scelte valide sul lungo periodo. Così, la rimonta clamorosa a cavallo tra secondo e inizio di terzo quarto è stata vanificata poco più tardi, anche perchè i Warriors hanno visto trasformarsi il canestro avversario in una Jacuzzi, con Livingston e Iguodala che hanno letteralmente banchettato nella metà campo avversaria, mentre dall'altra parte qualcuno deve aver dimenticato di togliere il tappo al canestro difeso dagli ospiti. Una squadra qualunque, nel bel mezzo di un vero e proprio tsunami cestistico, sarebbe crollata proprio com'è successo nell'overtime di gara 1 e nel finale di gara 4. Ai Cavs è successo qualcosa di simile, ma non a tal punto da dover alzare bandiera bianca. Smith ha persino provato a rimediare ad una serie a dir poco negativa per lui, con tre triple senza ritmo (puro eufemismo) che hanno riportato i suoi addirittura sul -4 a mezzo minuto dalla fine.

Ma questa stagione ci ha insegnato che quando i Golden State Warriors giocano con una frequenza cardiaca relativamente bassa, e al contrario con un livello di concentrazione altissimo, non ce n'è per nessuno, nemmeno per "the best player of the world". Il cuore e la voglia di fare una vera e propria impresa non sono bastati a Cleveland per portare la serie almeno all'atto finale, che forse i Cavs avrebbero meritato per tutto quello che hanno messo sul parquet, tanto a Oakland quanto in casa, e per le vicissitudini vissute nei precedenti episodi di questi playoff. D'altro canto, Golden State merita questo anello, e nessuno può azzardarsi a dire il contrario.

Nota a margine per gli appassionati di basket: sia che abbiate tifato per i Cavs, sia che abbiate tifato per i Warriors, la chiusura di questa serie rappresenta in un certo senso una brutta notizia per voi, visto che ha segnato la fine di una stagione fantastica di questo sport straordinario. La buona notizia è che, per fortuna, tra qualche settimana si riprende.