"Ride bene chi ride ultimo" evidentemente dev’essere il proverbio preferito dai (pochi, probabilmente) tifosi dei Dallas Mavericks. La franchigia texana costituisce a tutti gli effetti uno dei più insospettabili paradossi della moderna NBA, specialmente per quanto riguarda la considerazione pubblica della quale godono le singole squadre. Mentre proliferano gli adepti alla setta degli Splash Brothers (presto detta Currysmo), mentre i durantiani pregano Sir Arthur Jones affinché guarisca al più presto il piede malandato del #35, mentre si allarga il contagio virale per le schiacciate spettacolosa di Blake Griffin o i meme ritriti su James “in barba alla difesa” Harden, mentre insomma chi più chi meno tutti i principali attori dell’NBA contemporanea trovano spazio e proseliti su mezzi di comunicazione e social, c’è una squadra che si allena in un silenzio nient’affatto assordante, di quanto in quando rimirando quell’anello vinto quasi per miracolo (gli dei del basket, ogni tanto…) e che pure manca a tutti i precedenti. Si potrebbe dire che la sottovalutazione dilagante che grava ancora oggi sui Dallas Mavericks, nonostante siano stati gli unici in grado di emergere per ben 2 volte nel Selvaggio Ovest conteso dalle molteplici dinastie purple and gold e neroargento, sia figlia di una concezione ancora superficiale, quasi infantile della pallacanestro, che si esalta di fronte a due gesti atletici – la schiacciata e la stoppata – perfettamente inutili al gioco e al significato profondo dello stesso, ma sarebbe soltanto una mezza verità: perché, allora, tanto inusitato clamore di fronte al gioco spumeggiante e sofisticato dei San Antonio Spurs, che non corrono, non saltano, non stoppano e soprattutto non schiacciano? Come si può intuire, l’uso precedente della parola “paradosso” era nient’affatto casuale.
LOW PROFILE - In fine dei conti, ai Dallas Mavericks e ai loro tifosi in primis, va meglio così. Va meglio indossare i panni dell’underdog, della presunta sorpresa, lasciando ad altri pressioni ed aspettative, perché la storia recente insegna che quando è toccato loro reggere il peso del pronostico, puntualmente sono arrivati tonfi quasi inspiegabili, come il crollo verticale sofferto nelle Finals 2006 dopo che la Big D già allestiva la festa (vero, Mark Cuban?) o lo storico upset subito dai Golden State Warriors del rimpianto Baron Davis nell’anno di Dirk Nowitzki MVP di Regular Seasons, per la consegna del quale l’ex commissioner David Stern dovette addirittura istituire una cerimonia specifica – l’MVP di Regular Season infatti si consegnava all’alba del secondo turno dei playoff… Meglio insomma lavorare nell’ombra, in serenità, con calma, mirando a forgiare un gruppo coeso, umile e mentalmente solido proprio come 3 anni fa, quando nessuno si sarebbe aspettato quell’esito incredibile. Di sicuro non dopo il colpo inferto dal compianto Brandon Roy in quella Gara-4 che è ormai nella memoria di tutti i veri appassionati, che in altri tempi – chi ha detto 2007? – sarebbe stato mortale. Forse non dopo l’incredibile sweep ai danni dei campioni in carica Los Angeles Lakers, manifestamente implosi nella loro stanchezza mentale, a partire da un demotivato coach Phil Jackson. Forse nemmeno dopo i 48 punti di WunderDirk contro i rampanti ma ancora acerbi Oklahoma City Thunder, all’epoca trascinati dal vero Barba. Eppure, neppure 15 anni di competitività pressoché continua, né soprattutto quell’anello che nell’epoca meglio nota come post-Jordan soltanto San Antonio Spurs, Los Angeles Lakers, Detroit Pistons, Boston Celtics e Miami Heat possono sfoggiare, sembrano riservare credito e luci che Mark Cuban, Dirk Nowitzki e coach Rick Carlisle si sono guadagnati sul campo, nel senso più letterale del termine. Eppure, meglio così.
RIVALRY - Meglio così soprattutto quest’anno, quando la dirigenza texana è riuscita finalmente a centrare il proprio obiettivo di mercato (a Carmelo Anthony non poteva credere nemmeno Donnie Nelson, che di mestiere fa il General Manager), adottando una strategia aggressiva sia finanziariamente (45 milioni di dollari in 3 anni di contratto potevano profumare di una mossa della disperazione) sia sotto il profilo della tempistica. Daryl Morey, di gran lunga il GM più sveglio e temuto in quell’agone chiamato costless-agency, si è trovato improvvisamente on the clock e, dal sogno neanche troppo sognato dei Big Four in maglia Houston Rockets (James Harden, Dwight Howard, Chandler Parsons e Chris Bosh), è precipitato nell’incubo di un secondo contratto pluriennale a Trevor “contract-year” Ariza, alla sua seconda esperienza nella città dei razzi dopo il sanguinoso contratto quinquennale strappato nel lontano 2009. Chandler Parsons corre a velocità umana, salta poco più di un comune mortale, non stoppa quasi mai e schiaccia poco e in maniera composta (tranne rare e piacevoli eccezioni: vero, Blake Griffin?): a chi potrebbe mai interessare un giocatore così poco atletico ed appariscente? Ad un allenatore altrettanto poco sponsorizzato eppure geniale: Rick Carlisle. Chandler Parsons non è un franchise player e probabilmente non possiede nemmeno le potenzialità necessarie a diventarlo in futuro, però è uno studente del gioco, una persona e non un personaggio, disponibile al sacrificio e votato al collettivo, un’ala piccola eclettica tatticamente e superba tecnicamente, da rifinire fisicamente e nell’esecuzione delle intenzioni difensive ma già dotata di letture intelligenti e sveltezza mentale non indifferenti. Creta, insomma, nelle sapienti mani del suo nuovo allenatore.
WELCOME BACK - Chandler Bang è stato soltanto il mezzogiorno della torrida off-season dei Dallas Mavericks, che era iniziata col sospirato ritorno del figliol prodigo Tyson Chandler, in compagnia del tenero Raymond Felton, in cambio di Josè Calderon, Samuel Dalembert, due scelte al secondo giro (una tragica abitudine, per i texani) ed il sophomore Shane Larkin. E’ compito francamente arduo prefigurare quale potrà essere il rendimento del centro #6 campione NBA 2011, specialmente alla luce delle ultime stagioni newyorkesi, travagliate emotivamente e tormentate fisicamente, ma, non ce ne voglia il volenteroso haitiano, la difesa Mavs aveva assolutamente bisogno di un cardine dotato di costanza e carisma, agli antipodi delle pause mentali e delle ingenuità clamorose spesso manifestate da Sammy-D. I problemi articolari di Tyson Chandler, d’altronde, non erano esattamente una novità nemmeno 3 anni fa, quando i Dallas Mavericks lo prelevarono pressoché gratuitamente dai Charlotte Bobcats, eppure un impiego più misurato in termini di minutaggio così come un’organizzazione difensiva più articolata efficiente, tale cioè da non portarlo prima allo sfinimento nervoso e poi al cedimento strutturale, avevano pressoché azzerato il conto degli stop per ragioni fisiche. L’auspicio, anzi, la certezza, è che l’organizzazione texana saprà ottimizzarne l’utilizzo anche in questa sua seconda permanenza, così da averlo al massimo della condizione psicofisica quando davvero conterà, ovvero ai Playoff, tenendo pur sempre conto del fatto che 3 anni sono un tempo di decadimento significativo, tanto di più per un rim protector che ha sempre accompagnato ad un senso della posizione quasi animalesco e uno studio meticoloso degli schemi difensivi un’energia ed un’esplosività assolutamente devastanti.
MIRACLE MAVS - Fiducia massima nello staff medico, insomma, lo stesso staff medico capace di riportare a livelli più che decorosi quel Vince Carter eroe di Gara-3, simbolo ed anima dei Miracle Mavs capaci di costringere a Gara-7 gli invincibili San Antonio Spurs versione 2014, emigrato in Tennessee per siglare l’ultimo contratto importante della propria onorevole carriera: l’addio inatteso del nuovo sesto uomo dei Memphis Grizzlies è l’unica nota stonata – non per tempismo - di una campagna di rafforzamento altrimenti impeccabile, che è proseguita con
THE FUTURE IS NOW - Quest’ultimi, d’altronde, sono in una fase assolutamente delicata: la bandiera tedesca ancora non s’ammaina, ma l’anagrafe inizia a presentare il conto ed è in questo preciso momento che la dirigenza texana è chiamata alla missione più complessa, ovvero trovare il punto di equilibrio fra l’urgenza di sfruttarne al massimo gli ultimi anni, gestendone con oculatezza minuti
Dove possano arrivare questi nuovi Mavs sarà tutto da scoprire: un roster del tutto rivoluzionato necessita di lungo tempo prima di trovare il giusto bilanciamento e le incognite psico-fisiche che si accompagnato a numerosi acquisti sono evidentemente determinanti, così come le sostanziali incertezze legate ai quintetti base che di volta in volta si disporranno in campo, sia ad inizio gara -con il promettente Raymond Felton a contendersi lo spot di point titolare col più esperto e saldo Jameer Nelson - sia nei finali di partita, dove accanto a Monta Ellis, Chandler Parsons, Dirk Nowitzki e Tyson Chandler dovrebbe trovare posto proprio Devin Harris. Non solo: l’altissima competitività della Western Conference fa sì che basti davvero poco, magari qualche acciacco ben assestato, per perdere posizioni e scivolare addirittura fuori dalla zona playoff, a maggior ragione qualora il progressivo ambientamento dovesse scavare un piccolo ma significativo solco iniziale. La stagione 2013/2014 ha dimostrato una volta di più che, se davvero esiste una squadra in grado di andare oltre le proprie possibilità o, meglio, i soliti inutili pronostici cartacei, quella sono i Dallas Mavericks: chi li ha seguiti anno scorso, sicuramente non ha avuto di che pentirsene, non solo per il risultato conseguito (ben al di sopra di qualunque stima iniziale) ma soprattutto per la pallacanestro prodotta, di fattura inferiore a nessuno. Chi non l’ha fatto, non commetta due volte lo stesso errore.