Ci sono imprese sportive che sembrano nascere per caso, ma che sono destinate a entrare nella storia del gioco. Ci sono imprese sportive che si trascinano un alone mistico che sfuma tra realtà e fantasia, ricordi imbevuti di quel nettare necessario per rimanere impresse nella memoria della gente. C’è uno sport, la pallacanestro, che è una manifestazione plateale di come la vita si possa in qualche modo riaggiustare usando semplicemente i propri mezzi, sfidando se stessi a spingersi sempre un po’ più in là, fino a dove arrivano i nostri sogni. La storia che mi accingo a raccontare vorrebbe parlare solo di basket, ma è davvero impossibile scindere il nucleo di questo racconto dalla situazione sociale dell’epoca, che vedeva gli afroamericani vittime di un ambiente ancora chiuso e grottesco, vincolato da una supremazia fisiologica mai dimostrata (perché mai esistita) del ceto “bianco” su tutti gli altri.
L’intreccio romantico tra pallacanestro e sfida sociale comincia nell’università di El Paso Texas, terra di football in cui il programma di pallacanestro ha a malapena i fondi per tenere pulito e agibile il palazzetto in cui i giocatori si allenano. A tirare le redini della squadra di questo istituto c’è coach Don Haskins, che all’inizio della stagione 1965-1966 ancora non sa di stare per entrare di diritto nella Hall of Fame. E questo diritto di essere ricordato, lui e i suoi giocatori se lo sono guadagnato sul campo. Perché? Perché la squadra allenata da Haskins è la prima che presenta nel roster sette giocatori di colore. Nella società americana sopracitata, questo era inammissibile. “I neri sono forti, è vero. Sono grossi, sì. Ma non sanno gestire la pressione, si tirano indietro nei momenti di difficoltà”, questo è il pensiero comune delle persone di quegli anni. Di norma le Università tenevano al massimo un ragazzo di colore nel roster (più precisamente in panchina) e lo facevano entrare solo nel cosiddetto Garbage-Time, momento della partita in cui il risultato è già scritto, gli arbitri “si dimenticano” i fischietti e i giocatori corrono solo per se stessi, cercando di impressionare l’allenatore. Ma per quanto potessero giocare bene, ai giocatori di colore non veniva dato spazio. Don Haskins non vede colori della pelle. Vede tecnica, agilità, corsa e prova questo mix tra bianchi e neri che minaccia tempesta. I primi tempi lo spogliatoio dei Miners è una vera polveriera: “Chi sei tu per stare qui?” è quello che si chiedono rispettivamente le due fazioni di giocatori. Più volte lo scontro è fisico, in allenamento i ragazzi tastano quanto duri e cattivi possono essere i loro nuovi compagni. Coach Haskins vuole una pallacanestro semplice, incentrata sul gioco difensivo, che mal si adatta allo stile da playground che molti giocatori (Bobby Joe Hill su tutti) hanno da sempre sviluppato.
Là dove non può nulla la ragione, ci pensano le prime vittorie a migliorare gli umori della squadra: la squadra, sulle ali dell’atletismo portato dai giocatori di colore, vince a valanga le prime partite, arrivando imbattuta alla sfida contro Iowa, primo avversario di livello Nazionale. La fortuna non gira, gli attacchi dei Miners sono sterilizzati dalla solida pallacanestro degli avversari, che chiudono in doppia cifra di vantaggio il primo tempo. Nel secondo tempo si tiene una lezione di coraggio, con docente in cattedra Bobby Joe Hill (si, quello dello stile da playground): il suo modo di giocare tuttocampo si scatena nella ripresa, e punto a punto i Miners riprendono la partita, con Iowa che assiste inerme alla potenza offensiva sprigionata da Hill, Lattin, Flournoy e compagni. Si arriva a 10 secondi dalla fine con la squadra di Haskins sotto di un punto e con la palla in mano. Hill cerca di coinvolgere qualche compagno, ma con le linee di passaggio tutte chiuse va per il tiro della vita: è dentro! I Texas Miners hanno battuto la numero #4 della Nazione! I radar della NCAA iniziano a captare quel movimento anomalo che rappresentavano i Miners: chi era considerato come squadra materasso macinava vittorie e teneva il passo di colossi come Kentucky e Kansas. Una dopo l’altra le avversarie sfilano sul parquet di casa o ospitano la squadra in trasferta e il numero di vittorie dei Miners continua ad aumentare: uno, due, tre, dieci, quindi, venti...E per ora tutto questo altro non è che una grande storia di basket, il premio per una strategia vincente di un coach che ha iniziato la rivoluzione che ha portato alla pallacanestro moderna. C’è però un momento nel corso di una stagione in cui tutto sembra poter girare male, e ogni cosa sembra vana, futile, di fronte a quello che la vita ti mette davanti.
2 Marzo 1966, Nex Mexico State. I Miners hanno appena asfaltato l’università locale si concedono una serata di tranquillità in un ristorante cittadino, per cimentare ancora di più il gruppo in vista dell’imminente torneo NCAA. Al ritorno dalla cena però, trovano le loro camere rivoltate e imbrattate di sangue. La firma dell’autore è inequivocabile: Ku Klux Klan. Le paure tornano ad aleggiare tra la squadra, che fino a quel momento era stata capace di non curarsi delle noccioline che ogni sera venivano lanciate dagli spalti, o dai versi da scimmie che risuonavano nelle palestre. Loro volevano solo giocare a basket. Ma la sfida ora sembra davvero troppo grande, la paura è enorme. Non si ha più contro una minoranza ignorante, ma un’organizzazione e probabilmente una nazione intera.Che fare, in tutto questo? Don Haskins se lo chiede spesso quella notte passata in viaggio tra New Mexico e Seattle, dove il giorno successivo al fattaccio avrebbero chiuso la Regular Season. La squadra però la sera dell’ultima partita è completamente assente, spompa, stanca. Viene sconfitta e il record di imbattibilità sfuma. Purtroppo noi non siamo stati nello spogliatoio dopo quella partita, quindi non sapremo mai cosa successe davvero. Cosa può passare nelle teste di 12 ragazzi che tutto d’un tratto capiscono che le loro non sono semplici partite di pallacanestro, ma una sfida alla mentalità di una nazione intera?
E’ questa la chiave di volta dell’intera stagione dei Miners. E’ qui che si rendono conto di non essere una squadra qualsiasi, bensì una squadra in missione. La squadra rinasce nelle difficoltà, e annienta Oklahoma e Cincinnati. La finale regionale è la partita della vita, contro Kansas. Si gioca contro l’All-American JoJo White, futura scelta dei Boston Celtics. In quella partita, omaggio d’annata ai romanzi di monsieur Rocambole, si vivono scariche d’adrenalina pazzesche, con due overtime e la partita risolta all’ultimo secondo, con i Miners avanti di uno e White che segna la tripla del sorpasso, ma nel tirare tocca la linea di fondo, quindi non è valido, alle Finali Nazionali andranno i ragazzi di Don Haskins!
La finale è qualcosa di storico. Non tanto per il risultato, quanto per la maniera in cui è stata giocata. Coach Don Haskins decide di schierare solo giocatori di colore durante tutta la partita. Sette giocatori per 48 minuti per contrastare la #1 potenza universitaria, la Kentucky di Adolph Rupp. Una scelta folle, scellerata, ma quel giorno si andava per la storia e tutto era lecito. Nelle battute iniziali della partita si assiste a una mostruosa schiacciata di David Lattin, centro titolare dei Miners, in testa all’All-American Pat Riley (che qualcosa ha vinto anche da allenatore) che non può far altro che guardare il colosso con il 44 issarsi con un colpo di reni in cielo per sfondare il canestro. Questo gesto è una vera e propria dichiarazione di guerra. Si combatte punto a punto, senza esclusioni di colpi. Harry Flournoy, l’ala grande titolare, si fa male, non potrà più essere del match. Lattin finisce il primo tempo con 3 falli e deve essere tenuto a riposo. Quando la squadra soffre, Bobby Joe Hill con le sue accelerazioni tiene viva la speranza. Haskins in panchina si sbraccia, corre sulla linea laterale, e la squadra arriva a due minuti dalla fine con un risicato vantaggio sugli avversari. Time-Out Kentucky.
“Avete lottato tanto, siamo a poche azioni dal titolo. Andiamocelo a prendere”, le parole scolpite nella leggenda da Don Haskins nell’ultimo timeout stagionale. Alla ripresa del gioco il playmaker di Kentucky tiene palla, ma il suo passaggio viene intercettato dall'onnipresente Hill, che recupera palla e la offre a Lattin per la schiacciata vincente. E’ davvero finita, i Miners sono campioni NCAA e la prima squadra di colore ha sconfitto non solo gli avversari, ma la mentalità di un intero paese.
Spiegare a parole quanto rivoluzionaria sia stata quella partita è praticamente impossibile. Si pensi però che è stata messa in testa alla classifica degli eventi sportivi più importanti del XX secolo, e che ancora oggi a El Paso i giocatori del roster sono considerate delle divinità. Solo David Lattin e Nevil Shed avranno una carriera nella NBA, gli altri sceglieranno di dedicarsi ad altro nella loro vita. Don Haskins ha guidato i Miners per altre 32 stagioni, vincendo 719 partite e partecipando a 14 tornei NCAA, senza mai riuscire a rivincere il titolo. Don Haskins ha cambiato colore a questo sport, guardando semplice al talento e alla passione. Bobby Joe Hill, Willie Cager, Nevil Shed, David Lattin e gli altri componenti del roster resteranno nella storia come una delle più grandi sorprese di sempre nello sport, essendo inoltre stati una delle poche squadre interamente introdotte nella Hall Of Hame, oltre a diventare i protagonisti di un film, Glory Road, uscito nelle sale nel 2006, che racconta questa pazzesca avventura che racchiude in sé tante lezioni di vita. La forza della passione che surclassa il bieco cinismo umano, per esempio.
Who’s the next?