Difficile ricordare un'edizione del Tour de France caratterizzata da un percorso tanto duro e selettivo come quello affrontato quest'anno dai corridori. Gli organizzatori del Giro d'Italia, una volta persa definitivamente la lotta con la Grand Boucle per la definizione di corsa a tappe più importante del mondo, hanno negli ultimi lustri spesso posto l'accento sul fatto che il Giro fosse la gara ciclistica più dura tra quelle poste in calendario dall'UCI. Il 2015 segna invece un punto di svolta nei rapporti tra Giro e Tour: a fronte di una corsa rosa molto adatta a passisti scalatori e a corridori ben attrezzati per competere in lunghe cronometro individuali (incredibile quella di Valdobbiadene, 60 km di estensione), il Tour de France ha sfoderato un profilo inedito: un breve cronoprologo come antipasto della corsa, una cronosquadre posta alla fine della prima settimana e poi tanta, tantissima montagna, sino ad arrivare sulle Alpi passando per i Pirenei.

Nonostante questa sorta di mutazione genetica (ma attenzione, è possibile che dall'anno prossimo in Francia si torni all'antico), la Grand Boucle ha proseguito nel solco della tradizione: solita partenza fuori dai confini nazionali (Utrecht per l'occasione), una prima settimana buona per velocisti ma non solo, e le salite simbolo del Tour affrontate in successione (Tourmalet, Croix de Fer, Alpe d'Huez solo per citarne alcune). La novità più interessante è stata tuttavia rappresentata da vari arrivi su strappi brevi ma duri: Huy, Mur de Bretagne e Mende hanno offerto spettacolo, stravolgendo la classifica anche più di un tappone di montagna in cui i migliori della generale aspettano gli ultimi tre chilometri per darsi battaglia. E' stata poi riproposta la tappa del pavè, eccellente intuizione dei transalpini, per portare il sapore delle classiche del Nord nel percorso di una gara a tappe. 

Ne è derivato un Tour non sempre spettacolare, a causa di qualche esitazione di troppo degli avversari di Froome: il riferimento è soprattutto al colombiano della Movistar Nairo Quintana, che avrebbe dovuto approfittare di tanta salita per provare a vincere una corsa mai come quest'anno disegnata su misura per lui. Ma, al netto delle dinamiche di gara, si può imputare ben poco agli organizzatori francesi, prontissimi anche a valorizzare l'importanza delle discese (fantastiche quelle di Gap e del Col du Glandon) per ravvivare tappe che rischiavano altrimenti di rivelarsi soporifere. Splendida poi la trovata di inserire il gran premio della montagna di Lacets de Montvernier nella giornata con arrivo a Saint-Jean de Maurienne, spettacolare salita a tornanti, una sorta di Alpe d'Huez in miniatura tanto selettiva quanto favolosa da apprezzare in televisione.

Come accennato, già dalla prossima edizione il Tour potrebbe tornare a vestire i suoi abiti più tradizionali, con vari chilometri in più a cronometro e meno arrivi in quota. Ma in fondo è esattamente ciò che gli organizzatori francesi intendono fare: miscelare sapientemente la storia della loro corsa con l'innovazione richiesta dal pubblico del ciclismo. E' questa una lezione che al Giro dovrebbero sempre tenere presente. Mai modificare il proprio Dna per cercare di comporre una lista di partecipanti di rango e indurre così qualche top ryder (per usare un'espressione mutuata dal gergo calcistico) a lottare per la maglia rosa. D'altronde in questo senso si è mossa anche la Vuelta che, priva di una storia e una tradizione ben riconoscibili, si è mossa verso la direzione - in realtà discutibile - di strutturare la propria corsa come una sorta di giro delle salite più dure di Spagna, andando a cercare pendenze proibitive sin dai primi giorni di gara. Piaccia o meno, anche la Vuelta ha così trovato una propria identità, da sempre ben individuabile nel Tour de France, e che dovrebbe essere mantenuta ferma pure dal Giro d'Italia.