Da Wimbledon a Wimbledon. Dalle lacrime alla gioia. Andy Murray sale l'ultimo gradino, chiede permesso ai signori del tennis e si siede, consapevolmente, con merito, al tavolo dei tre grandi. Ha appena trionfato a Wimbledon, ha compiuto l'impresa che tutta l'Inghilterra agognava da tempo. Ha riportato in patria un trofeo che mancava dai tempi di Fred Perry. 77 anni, una vita. Ora la tavola rotonda dei giganti della racchetta è completa. C'è l'antico e elegante Roger, il guerriero Rafa, l'instancabile Nole. In quattro, pronti a spartirsi trofei e gloria. Ha faticato ad arrivare lo scozzese, figlio di un carattere acerbo, scontroso. Fatto di urla e schiamazzi. Proteste e imprecazioni. Alti e bassi. Difficile assistere a una partita tranquilla del ragazzo di Glasgow. É sempre un'altalena di emozioni, incontrollabile.
Wimbledon, si diceva. Dove il tennis è più di uno sport. Si accosta alla religione, a un credo. Lì ogni dettaglio è curato. Dall'erba, organismo vivente, da accarezzare e crescere. All'abbigliamento, da lord. All'organizzazione. Se Fludhing Meadows è il torneo del rumore e della vita mondana, espressione della frenetica New York, il Centre Court è la rappresentazione della tranquillità britannica. Il tè delle cinque, il tennis seguito in silenzio. Una sorta di orazione, di devozione. Per anni il pubblico di casa si è affidato a buoni giocatori. Da Rusedski a Henman, tutti hanno provato a completare l'impresa. Per anni amare delusioni. Fino a Murray. Eppure anche lui ha percorso l'inferno per giungere al paradiso. Nel 2012, in finale, ha trovato sulla sua strada Roger Federer. Una finale neutra, perché l'elvetico, qui, è padrone di casa. Con la sua imponente figura, doma il rettangolo, crea intorno a se un'aurea di grandezza. Perde Andy, contro l'ultimo grande Federer.
Ma la rivincita, con al fianco Lendl, ha il sapore della vendetta. Sempre a Londra, solo pochi mesi dopo. La cornice olimpica consegna nelle mani del figlio di Sua Maestà l'alloro della consacrazione. Parte la scalata al ranking del tennis. L'Us Open è naturale conseguenza. Murray batte Djokovic e si presenta ai nastri di partenza del 2013, come naturale leader, al pari del serbo, con Nadal costretto ai box dai problemi al ginocchio. L'inizio è perfetto. Brisbane finisce nella sala Coppe di Andy e l'Australian Open è giocato su ottimi livelli. La semifinale con Federer è un teatro di tennis sublime. Cinque, combattuti set, domati dallo scozzese. Nell'ultimo atto prevale però Djokovic. Murray conquista il primo tie-break, ma cede poi 7-6 6-3 6-2.
Miami segna l'impresa di Murray. In una finale tiratissima sconfigge il soldatino spagnolo Ferrer, annullando il match point sul 5-6 del terzo. La dimostrazione del salto di qualità è proprio qui. Mai in passato aveva mostrato una tale solidità mentale. Il problema non era certo nel repertorio tennistico, quanto nella capacità di giocare il colpo migliore nel momento più importante. La stagione in rosso è condizionata dai problemi alla schiena. Roma segna un momento buio. Murray non può continuare e salta il Roland Garros, pronto a tornare per la stagione sull'erba.
Vince al Quenn's, contro Cilic, sognando Wimbledon. Nel torneo più atteso, il brivido vero ha il volto dell'atipico iberico Verdasco. Tennista altalenante, ma di talento. Capace di rendere al meglio lontano dalla terra, superficie amata, generalmente, dagli spagnoli. Sotto due set a zero, Andy esce indenne dalla trappola londinese e prende l'abbrivio decisivo. Regola in quattro set Janowicz in semifinale, 6-7 6-4 6-4 6-3. La finale è una festa. Tre set a zero, contro il rivale più accreditato, Novak Djokovic. 6-4 7-5 6-4 e braccia al cielo.
All'Us Open è sconfitto ai quarti da Wawrinka, ma è visibile la difficoltà, accentuata dal duro cemento, di Murray. La schiena torna a reclamare attenzione e arriva il momento del definitivo stop. Salta gli ultimi Master dell'anno e anche le finali, a cui era già qualificato. Chiude quindi ai box il 2013, l'anno di Wimbledon e della storia.