5 Dicembre 1998. Stadio Olimpico. La Roma di Zeman affronta il Perugia di Nakata schierando, per la prima volta dal primo minuto, un ragazzino di 19 anni che non può passare inosservato. Si chiama Conti Daniele, maglia numero 23, ed è il figlio del grande Bruno, uno degli artefici del magico scudetto giallorosso targato 1983.
Al minuto 61, Totti sblocca la partita. Passano due minuti e su un cross dalla destra si avventa quella maglia numero 23. Il pallone finisce in rete. Sembra il magico inizio di un’altra storia d’amore tra Roma e la famiglia Conti. Daniele corre subito a festeggiare sotto la Sud, abbracciato dal capitano e , a fine gara, dedica il gol al padre.
Quell’anno Daniele colleziona solamente 5 presenze in prima squadra e viene così ceduto in comproprietà al Cagliari nell’estate successiva per, come si dice in gergo, “farsi le ossa”, con la speranza di tornare presto all’Olimpico da protagonista.
Non sempre, però, le cose vanno secondo i nostri piani. Daniele, da allora, non si è più mosso da Cagliari.
Delusione? Troppa pressione? Numerosi sono i casi, in ambito sportivo ma non solo, di figli d’arte che non riescono a reggere il peso dei continui , inevitabili confronti con la figura paterna. Non è il caso di Daniele Conti.
Daniele, in questi anni, si è costruito una splendida famiglia ed è diventato il capitano e leader carismatico dei sardi. Certo, a differenza del padre, non ha vinto nulla.
Ma, nella piccola realtà di Cagliari, Daniele ha trovato il suo equilibrio perfetto. Domenica scorsa, la doppietta che ha steso il Toro e la corsa ad abbracciare il figlio Manuel, un’immagine stupenda che papà Bruno non ha mancato di evidenziare con una lettera commovente pubblicata sulle pagine dell’”Unione Sarda” , di cui riporto alcuni stralci:
“Pensavo di averle vissute e provate tutte, poi mi ritrovo a 58 anni sul divano davanti alla tv con le lacrime agli occhi,e tua madre accanto, non spiccica parola, mi guarda incantata e troppo emozionata e felice per parlare e rompere l’incantesimo. Già ci avevi fatti piangere l’anno scorso con Brunetto, ora Manuel. La stessa scena, la stessa gioia. Perché quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia. Perché tutti conoscono il grande calciatore che sei diventato, in pochi però sanno quanto tu sia un grande uomo, un grande figlio, un grande padre.
[..]Forse all’inizio, in cuor mio, speravo di rivederti presto con la maglia giallorossa(..). Quindici anni dopo è andata in tutt’altro modo. Una storia diversa, forse più bella, di sicuro speciale. Hai fatto una scelta importante, la più difficile, ma alla fine hai vinto tu.
Ricordo i primi momenti al Cagliari, l’esordio, i sogni, le difficoltà. Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto. Col tempo però, hai zittito tutti, poi li hai conquistati sul campo. Col talento, con la forza, col carattere.
[..]Forse dal vivo io e tua madre non ti abbiamo mai realmente detto quanto siamo orgogliosi di te. Oltre ad aver onorato il nostro sangue in campo, hai portato avanti, grazie anche a tua moglie Valeria, i valori della nostra famiglia in una società complicata, problematica e superficiale, come faceva tuo nonno Andrea, muratore e padre di sette figli. E per questo, figlio mio, non smetteremo mai di ringraziarti".
Bruno e Daniele, avete vinto voi. Ha vinto il calcio. Grazie.