In quanti ricordano Mauricio Pellegrino? Probabilmente in pochi, ma il suo curriculum è piuttosto ricco e interessante. Ex vice di Benitez a Liverpool e a Milano, sponda Inter. Cresciuto nelle giovanili del Velez Sarsfield, è riuscito a sbancare anche fuori dalla sua amata Argentina vestendo le maglie di Barcellona, Valencia e Liverpool e, infine, Deportivo Alaves. Nel suo palmares spiccano 3 campionati spagnoli, 1 Supercoppa di Spagna e 1 Coppa Uefa con la maglia del Valencia, club che gli ha concesso il lusso di collezionare ben 197 presenze in 7 stagione. Un tecnico da rispettare e che si è fatto valere alla guida dell'Alaves, club neopromosso che ha raggiunto uno straordinario piazzamento a metà classifica e una storica finale di Coppa del Rey. Di seguito ecco la sua intervista.

Una stagione ricca di soddisfazioni, conclusa nel migliore dei modi. Contro il Barça, una vittoria e una pesante sconfitta per 6-0: "Contro avversari di questo livello tra una vittoria per 2­1 e una sconfitta per 6­0 la differenza sta in un centimetro. Se tu lasci un centimetro a giocatori tanto efficaci sotto porta ti fulminano. Stiamo parlando di una squadra che negli ultimi 10 anni non è che sia stata tra le migliori, no, ha dominato il mondo del calcio. E questa distanza tra grandi squadre come Madrid o Barcellona e il resto dei contendenti non si sta riducendo, piuttosto si allarga."

Distanza tra le altre squadre e le cosiddette "potenze" del calcio spagnolo? "Magari i 6­700 milioni di fatturato loro contro i nostri 26. Detto questo il calcio ha un aspetto meraviglioso: è uno sport di squadra e ti permette a livello di collettivo di essere migliore del tuo avversario inqualcosa, una parte del gioco. Cosa impossibile in uno sport individuale. E vale ancor di più in una finale: in un torneo di 38 turni la Juve è sempre prima, ma in gara secca il Sassuolo se la può giocare. E così vedo la finale: tra noi è loro c’è una grande differenza però nel calcio tutto è possibile."

Uno sguardo alla stagione del suo Alaves, autentica rivelazione del campionato: "Conoscevo l’Alaves perché chiusi qua la mia carriera nel 2005-­06. Sapevo che questo è un contesto nel quale i giocatori possono crescere perché c’è tanto rispetto e tifo, e le due cose non sempre nel calcio vanno a braccetto. I baschi sono come gli inglesi: spingono, spingono, spingono. E rispettano. Quando giocai qui retrocedemmo e l’ambiente era comunque positivo. Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato se le cose fossero andate bene. Altrove si gioca da lunedì a sabato, qui no: c’è grande forza sugli spalti poi però ognuno pensa alle sue cose. Qui si uniscono passione e rispetto. Per noi latini la passione è rompere una sedia o tirare qualcosa in campo, così dimostro di essere un grande tifoso. Ed è un grande errore."

Un grande passato da calciatore sotto gli insegnamenti di allenatori come Bielsa, Van Gaal (e Mourinho vice), Benitez, Cuper, Ranieri, Bianchi: "Sin da bambino ho avuto una grande ammirazione per la figura dell’allenatore: posso dire che facevo più caso al tecnico che a mio padre, mi sono sempre messo nei panni dell’allenatore e già nel 1999, 7 anni prima di ritirarmi, ho iniziato a fare il corso. La conoscenza rimediata dai grandi maestri che ho avuto non mela toglie nessuno però dove, sì, io posso crescere è a livello umano: le difficoltà in una squadra sono più umane che tecniche, come far capire ai giocatori di poter far parte di qualcosa di collettivo che è superiore al valore del singolo. I calciatori hanno dei limiti che non possono superare, ma a livello di squadra, di collettivo, la crescita è illimitata. Non è un messaggio facile da far passare perché la società oggi va nella direzione opposta. Ti dice: “Salvati, pensa a te stesso” e c’è una non comunicazione assoluta. Lì sta la grande sfida degli allenatori: costruire un grande spirito di squadra, è la cosa più bella che c’è in questa professione. La prima cosa che cerco di far capire ai ragazzi è che valgono anche se perdono. La società ti dice che vali solo se fai risultato. E non è così. Ti dicono che se non hai una laurea non servi, ed è una bugia. Nel futbol vali a seconda di ciò che vinci: sono miserie umane trasportate al calcio."

Un paragone tra il suo vecchio calcio e quello moderno. Ai giorni d'oggi c'è più dialogo: "Senz’altro. A me non hanno mai dato spiegazioni: né quando giocavo né quando non lo facevo. Il primo che ha iniziato a chiedermi come stavo fu Rafa Benitez. Si sedeva con ogni singolo giocatore a parlare, chiedere, questioni personali e tecniche. Voleva sentire la tua opinione. Mi ha cambiato la maniera d’insegnare: lo faceva con domande piuttosto che con risposte. Con Benitez ho fatto un master, tre anni tra Liverpool e Inter."

Uno sguardo proprio ai nerazzurri, sempre più avvolti nel caos: "Dopo Mourinho non c’è stata continuità. Penso che tornerà grande ma ci vuole calma. Anche la Juve è passata per un periodo turbolento, e guarda dov’è ora. I momenti difficili a volte se presi per il verso giusto servono per ripartire. Detto questo, non credo granché ai progetti che nascono attorno a un allenatore. Credo in un progetto che venga dal club. È difficile farne uno attorno a un tecnico che se perde 5 gare se ne deve andare."

L'Inter è alla ricerca di un nuovo allenatore, l'ennesimo: "Lo fa per coprirsi le spalle. Una squadra è forte quando è solida dentro, quando è capace di trasmettere un messaggio chiaro. Nel calcio si chiede l’opinione della gente solo per scaricare le proprie responsabilità. Da tempo gli allenatori sono parte di un contesto, e il contesto, il messaggio, l’obiettivo lo crea il club. Un allenatore è parte di questa idea con i giocatori, la società, i tifosi, il potere economico, la rosa, la programmazione. Le voci sono tante, ed è molto difficile che un allenatore da solo possa far tutto. Può aiutare, ma non essere il muro portante sul quale costruire tutto."

Un pensiero anche sulla finale di Champions League e sulla Juve: "La Juventus mi piace molto. Contro il Monaco, e prima col Barcellona, guardando le partite avevo la sensazione che non potessero mai farle gol. E se a questa solidità difensiva aggiungi il coraggio offensivo che mostra oggi con Dybala, Higuain, Dani Alves, Cuadrado, oltre al carattere tipico di una squadra italiana di alto livello… Vedo la finale al 50 per cento."

Infine, chiude con il Real Madrid: "«Zidane ha portato grande calma in un mare turbolento. Non lo si vede mai nervoso, trasmette concetti semplici e onesti: quando lo senti parlare non avverti mai dietrologia. Sembra gestire al meglio i conflitti che fanno sempre parte di uno spogliatoio e i suoi migliori giocatori sono molto partecipi. Penso a Ramos, Marcelo, Ronaldo. Però lo stesso vale per la Juventus, a partire da Buffon e Chiellini. Non vedo un favorito chiaro."

Un grande uomo prima che un grande tecnico. La corrente tattica argentina si è espansa in maniera decisa in gran parte dell'Europa. In Premier troviamo Pochettino, in Spagna via con Pellegrino, Simeone, Berizzo e Sampaoli, tutti tecnici preparati e che hanno portato a casa risultati più che positivi. E' strano che la Seleccion abbia nominato solamente pochi giorni fa il nuovo allenatore dopo anni di totale disordine.