La triste fine di una felice storia. Una tempesta perfetta a coprire il sole più luminoso dell'ultimo decennio tennistico. Il 2013 e la fine di un'era. Quella del più grande. Il tramonto di Roger Federer. Rinviato, predetto, scritto, studiato. Fino al Masters. Lì è riemersa la fiammella della speranza, della fiducia. Il boato della O2 Arena a ogni
Fisico e coach. Sono partiti da qui i problemi del Federer versione 2013. Dopo il Masters lo svizzero ha lasciato aperto ogni spiraglio per una futura guida tecnica. Piatti, ormai lontano da Gasquet, resta possibilità remota. Per ora si prosegue con Paganini, preparatore atletico, e Luthi, allenatore di Davis. Lasciato Annacone, Roger pensa al futuro, ma con calma. Senza fretta. Pensando a una preparazione adeguata, magari senza gli eventi mediatici e pubblicitari che han finito per condizionarne il rendimento e minarne il fisico. La schiena ha presentato il conto allo svizzero, costretto a giocare, spesso, in precarie condizioni. Dopo un buon inizio anno in Australia, col quarto strappato a Tsonga e l'uscita di scena in semi con Murray, sono arrivate delusioni in serie e anche nei tornei in cui ha raggiunto risultati rispettabili, come a Roma (finale con Nadal), non ha pienamente convinto (solo in seguito ha confessato difficoltà e patemi ai più già evidenti).
Negli Slam, solitamente habitat naturale, ha fallito malamente. La meteora Stakhovski ha chiuso al secondo turno l'avventura di Wimbledon, il suo “parcogiochi” preferito, il tempio del tennis, luogo di culto per neofiti e appassionati, dopo che Tsonga, in tre comodi set, aveva stroncato il suo cammino sulla terra di Francia. Ma la più inspiegabile debacle resta quella al quarto turno dell'Us Open con Robredo. Non tanto per il valore dell'avversario, onesto giocatore, quanto per il Federer che ha calcato quel giorno Flushing Meadows. Vittima di se stesso. Di dubbi e incertezze. Accartocciato in una serie di snodi interiori indecifrabili. Lì anche lui ha capito che occorreva fermarsi. Ricostruire partendo dalle certezze. Via il nuovo attrezzo, fonte di insicurezze. Niente prove rivoluzionarie. Ritorno all'antico. Da lì, messo a nuovo, ha riacceso i motori. Pensando al 2014. All'ultima volata, all'ultimo giro di valzer, concesso solo ai più grandi. Un'immagine, una pietra da lasciare ai posteri, prima di chiudere il tubetto di palline e appoggiare la racchetta, salutando col sorriso, timido, ancora una volta. Non poteva certo bastare un trionfo ad Halle (l'unico del 2013), luogo in cui è accostato a una divinità, per chiudere il cerchio di una parabola, che attende i fuochi d'artificio finali.