Un trionfo. Un’impresa senza precedenti, se si esclude la clamorosa rimonta del Deportivo sul Milan nel 2004 e quella di due anni fa del Barcellona dopo il 4-0 subito dal PSG. La Roma, infatti, è la terza squadra nella storia della Champions League a rimontare uno svantaggio di tre o più gol incassato nella gara d’andata di una fase ad eliminazione diretta, e lo fa proprio ai danni della compagine blaugrana.

Una partita che nella capitale non scorderanno probabilmente mai, quella di ieri sera allo Stadio Olimpico: una Roma dura, tenace, brillante, ai limiti della perfezione, ha letteralmente oscurato il talento di una delle squadre più forti del pianeta, andando a trionfare per 3-0 e guadagnandosi l’accesso alla semifinale. Tra i tanti elementi di discussione del day after, sicuramente a nessuno può sfuggire lo schieramento tattico di Di Francesco, che ha optato per un 3-4-3 spregiudicato, andando però a pressare il Barça altissimo e riducendo al minimo i margini di manovra del tiki-taka blaugrana. Tattica, carattere, tecnica, un pizzico di follia, nella serata giallorossa c’è stato di tutto. Ma, soprattutto e sopra a tutti, c’è stato Edin Dzeko.

I più ricorderanno la prima stagione italiana del bosniaco. Un vero e proprio incubo. Semplicemente, l’attaccante che aveva incantato Germania ed Inghilterra sembrava improvvisamente la controfigura di se stesso. A fine stagione le reti saranno comunque 10 (in 39 presenze tra tutte le competizioni) ma i mugugni e le critiche sul suo conto piovevano da tutte le parti. Poi, come nelle migliori favole, è arrivata la stagione della rivalsa: 39 gol stagionali, 29 in campionato per prendersi il titolo di capocannoniere, e 15 assist. Da lì, ovviamente, Dzeko è diventato davvero quello che tutti si aspettavano in giallorosso: un trascinatore, un leader, un bomber, che non solo la butta dentro ma aiuta anche i compagni in fase di manovra.

Questa stagione, invece, ha visto il bosniaco partire bene (10 reti nelle prime 11 partite) per poi oscurarsi un po’ in fase realizzativa: il lavoro, elogiato spesso da Di Francesco, rimane quello, ma la rete si è gonfiata una sola volta nelle successive 15 uscite della Lupa. Qui, tra ottobre e dicembre, le voci oscure sono tornate a circondare l’ambiente e quella figura così imponente, con il suo metro e novantadue ed i tratti duri da balcanico. Dzeko non va bene per il gioco della Roma, Dzeko è lento, Dzeko non vede la porta, Dzeko ha anche una certa età. Sembrava addirittura tutto fatto per l’addio, durante il mercato invernale, con le sirene del Chelsea che avevano quasi catturato il numero 9. Invece, la storia racconta di un gran rifiuto, dei blues che virano su Giroud, di un Edin Dzeko che, per l’ennesima volta nella sua carriera, si rimette in gioco e prova a dimostrare quanto vale.

Tutto quello che gli si chiedeva, tutte le prove di forza immaginabili, le ha addirittura condensate in soli novanta minuti. In novanta minuti davanti ad uno Stadio Olimpico gremito come solo per le grandissime occasioni, tutto unito in quella speranza un po’ folle, decisamente utopica, di fare lo sgambetto ai marziani. Che sarebbe stata la sua serata, Edin l’ha messo in chiaro dopo appena sei minuti: De Rossi controlla a centrocampo, alza la testa e vede il suo attaccante muoversi per battere la linea difensiva. Il lancio è un cioccolatino, ma quello che avviene dopo è un capolavoro di tecnica: scatto che beffa Alba ed Umtiti al momento giusto per evitare il fuorigioco, controllo di destro, con la palla che arriva alle spalle da distanza siderale, in corsa, e sinistro appoggiato in controtempo per anticipare l’uscita di Ter Stegen. Un gol da animale d’area di rigore, da centravanti moderno, dotato di un controllo del corpo e di una capacità di spostare il pallone sconosciuta ai più. Basterebbe questo, basterebbe una clip di dieci secondi, per osannare questo giocatore nei giorni a venire. Invece, il contributo di Dzeko ad una delle vittorie più clamorose della storia recente della Roma va molto oltre, oltre anche allo splendido movimento, di nuovo su palla lunga, con il quale protegge palla poco prima dell’ora di gioco, tenendola lontana da Piqué mentre si avvicina alla porta e costringendo il catalano a stenderlo in area. Da quel rigore, trasformato da De Rossi per il 2-0, si arriverà poi al ribaltone assoluto con la gioia di Manolas e di una città intera.

Oltre tutto questo, però, Dzeko ha giocato personificando la partita che Eusebio Di Francesco ha chiesto ai suoi: una partita di grinta, con 5 contrasti aerei tentati contro i centrali del Barcellona (non esattamente due steli di margherita) senza perderne nemmeno uno. Una partita di coraggio, di tattica, sempre ad attaccare la profondità ed a fornire linee di passaggio pulite al centrocampista di turno. Raramente, osservando la heatmap di una prima punta schierata al centro del tridente, si può osservare un variare così ampio della posizione in ampiezza, non solo in area di rigore, ma tutto intorno ad essa, per fornire appoggi e liberare spazi agli inserimenti, oppure, senza palla, per chiamare il primo pressing, per stimolare i compagni, per fare paura agli avversari. Per dire che sì, una squadra può partire sfavorita, può avere contro tutti i pronostici, ma non può rinunciare a giocarsela, per quanto banale sembri, e se giocarsela vuol dire andare a pressare nella propria area di rigore i difensori del Barcellona, ben venga, maniche accorciate e pedalare.

Questa ode sembrerà di parte, e mi perdonerete per questo, ma quella di Edin Dzeko ieri è stata una partita che, per prendere in prestito le parole di Flavio Tranquillo (all’epoca chiamato a descrivere l’incredibile Steph Curry delle NBA Finals 2015) “legittima una stagione, una carriera intera”. Legittima la stagione e la carriera di un giocatore che ha fatto vedere cose positive e negative, che ha passato momenti di gloria e di sconforto ma che, a 32 anni, ha ancora una volta dimostrato quanto sbagli chi non lo cita tra i migliori giocatori sul pianeta nel fare quello che fa.