Il cuore in campo. E' il riassunto di una serata passionale, quella romanista contro il Lione, ma che sarebbe dovuta, in modo assolutamente naturale, terminare in tutt'altra maniera con- al posto della Roma- una squadra "normale". Una squadra capace di sfruttare quelle 5,6 nitide palle gol che in una gara europea sono invece solitamente rare. Un peccato, dunque, nell'analisi di questi 180' minuti, almeno 3/4 dei quali giocati a viso aperto dalla Roma. Un tempo, il secondo di Lione, totalmente arrendevole, ha portato alla qualificazione ai quarti di finale i francesi. Dalla consacrazione all'incubo, perché è opinione comune che la Roma abbia salutato quest'Europa nell'anno della possibile vittoria, nell'anno del possibile trionfo.
Nella notte dei 40000 dell'Olimpico, qualcosa non va ma non si vede, almeno guardando al complesso della squadra. Se è vero che c'è chi decide di stare lontano dal gioco e non ingrana, vuoi perché incerto, vuoi perché non in grado di opporsi fisicamente agli avversari (Bruno Peres, Dzeko, su tutti). Ma la sensazione generale che consegna il match è invece quella di una squadra caratterialmente forte, che prende stupidamente un gol identico a quello dell'andata, e questo è assolutamente grave, censurabile, ma anche un atteggiamento nelle corde del Lione; una squadra però che non si siede con l'immagine di tre, difficili, gol da fare, ma che invece spinge per il resto della gara a caccia dei sigilli verso Nyon. Prima Strootman, dopo meno di 2' dal gol francese, poi la progressione continua che porta a occasioni su occasioni, culminate col rapido ingresso in area di El Shaarawy, l'asso nella manica inserito da Spalletti nel secondo tempo per lo spento Peres (che gli osservatori del Valencia presenti all'Olimpico abbiano caricato l'ex Milan?). A quel punto la Roma ci crede, spinta da un tifo purtroppo non dei migliori, ma comunque entusiasta. Serve il miracolo, si vede, perché il Lione si chiude bene, ma le occasioni arrivano, una, due, tre. Le occasioni non sfruttate come passaggio dalla possibile consacrazione all'incubo. Ancora.
Si perché i novanta di ieri sera non sono che la esplicazione in campo della nota storia romanista, che qualcuno inizia a pensare come incontrovertibile, a questo punto. Ancora una gara di questo tenore che abbandona la Roma al gelo di una stagione che aveva come netto obiettivo la vittoria di un trofeo come l'Europa League, ancora una gara dove un centravanti lodatissimo, a ragione, per via di 30 gol stagionali, non mette il timbro sulla classica gara per lui, che avrebbe dato al bosniaco e alla squadra eterna gloria e riconoscimento. Il cinismo è l'arma delle big, la Roma invece galleggia durante il match su una foga mista a rabbia, e fatica a ragionare soprattutto nell'ultimo quarto di gara, il più importante.
Genesio fa il suo lavoro, leva gli attaccanti, mette difendenti, si copre, tiene palla e soffre in silenzio. Al fischio di Kassai (al quale si rimprovera un fuorigioco davvero inesistente fischiato su El Shaarawy) è il club di Lacazette e soci a passare ai quarti, nel silenzio composto dell'Olimpico. "Amaro" contiene in sé la parola "Roma", non è un caso. Nemmeno oggi.