Ci credevano, ci speravano. Era un desiderio più simile all'utopia che alla possibile realtà. Eppure Usain Bolt ha risposto “OK”. Lo sapeva e lo percepiva, forse lo voleva e contemporaneamente lo rifiutava. Ha cercato di smarcarsi, conscio delle sue condizioni e della sua “non responsabilità”: alla fine però da campione ha confezionato la sorpresa più bella.
Non si tratta di retorica né di falso moralismo, a volte è semplicemente il bisogno umano di vedere un barlume di luce nel buio più profondo. Gatlin non è un reietto né tocca a chi è estraneo crocifiggerlo, è comunque indiscutibile che il mondo dell'atletica, al centro di accuse e sospetti, nell'intimo confidasse nel trionfo dell'altro. C'è una sport da ricostruire, una disciplina da rendere nuovamente credibile, un ambiente da far ripartire e, come ogni cambiamento, non può basarsi su fondamenta instabili del passato.
Usain coglie la sua vittoria più grande sui 100 m, perché sofferta e incerta. L'uomo che ha ridato lustro alla regina dei giochi olimpici sconfigge soprattutto sé stesso, i suoi limiti e i suoi dubbi, quelli che per gli altri sono pietre affossanti. L'avvicinamento zoppicante, ben raffigurato in quel cedimento nei primi passi di accelerazione in semifinale, non ha significato mancanza. Il cronometro non entusiasma, ma nella pista che lo ha lanciato veloce al pari del suo talento è la modalità a gridare.
Mai dare per finito un campione, mai sottovalutare le risorse di chi vuol essere una leggenda. All'ultimo atto subentrano altri fattori, tra tensioni e pensieri, e alla calata del sipario il fisico perde di forza per lasciare la gloria a quei margini sconosciuti che solo gente come Bolt ha.