Due settimane abbondanti di medaglie ed emozioni; 98 titoli assegnati e la solita alternanza di esultanze e delusioni; sorrisi, lacrime di gioia e di rabbia. Non è mai facile tirare le fila e riordinare le idee al termine di un'Olimpiade. Proviamoci selezionando i momenti, le imprese, i personaggi che maggiormente resteranno di Sochi 2014.
Uomini e donne da record: Tre nomi, tre fenomeni di tre sport diversi che in quel di Sochi hanno gareggiato e vinto non solo nella cronaca, ma anche nel confronto con la storia delle loro discipline di appartenenza e delle Olimpiadi in generale. Si tratta di due norvegesi, Ole Einar Bjoerndalen e Marit Bjoergen; e del nostro Armin Zoeggeler: a Sochi sono diventati rispettivamente l'atleta più vincente di sempre nella storia degli sport invernali; la fondista più vincente di sempre a livello olimpico; e l'atleta più longevo di sempre a livello di podi a cinque cerchi. Il mito del biathlon Bjoerndalen ha raggiunto il mito del fondo suo connazionale Bjorn Daehlie per numero di ori (otto), e lo ha staccato per numero di medaglie complessive (tredici contro dodici): merito del trionfo nella sprint d'apertura, con cui a quarant'anni è tornato ad aggiudicarsi un titolo olimpico individuale dodici anni dopo il filotto di Salt Lake City (tre ori su tre a cui aggiunse quello in staffetta), e della vittoria nella staffetta mista in cui ha fornito un contributo decisivo in terza frazione. Marit Bjoergen, nonostante il clamoroso passaggio a vuoto della Norvegia tutta in staffetta, si è portata a casa tre titoli (skiathlon, sprint a coppie assieme alla giovane compagna Oestberg, e 30 km a tecnica libera), e con dieci medaglie complessive è diventata la fondista più medagliata di sempre a livello olimpico, al pari della sovietica Svetanina e della nostra Stefania Belmondo nei cui confronti la Bjoergen vanta però più medaglie d'oro, ben sei per un bottino che è a sua volta record in coabitazione con la pattinatrice sovietica anni '60 Skoblikova e con la fondista russa Egorova. E nel caso di Bjoergen si tratta di numeri probabilmente ancora migliorabili tra quattro anni. Armin Zoeggeler invece con il suo straordinario bronzo nel singolo maschile di slittino ha inanellato il sesto podio olimpico consecutivo (dal bronzo di Lillehammer '94 a quello di Sochi 2014, passando per l'argento di Nagano, gli ori di Salt Lake City e Torino, e l'altro bronzo di Vancouver): si tratta di un record assoluto a livello di Olimpiadi invernali e anche in ambito estivo se non si prendono in considerazione le gare a squadre (che fino a Sochi non avevano mai fatto parte del programma di slittino). E con questo suo podio Armin tra gli altri ha staccato anche il tedesco Georg Hackl, suo grande rivale di inizio carriera di cui Zoeggeler ha di fatto raccolto l'eredità prima dell'arrivo del ciclone Loch, che invece si era fermato a quota cinque podi olimpici consecutivi: insomma la perfetta chiusura del cerchio per il nostro portabandiera.
La parabola di Carolina: Dai tormenti di Torino e Vancouver all'estasi di Sochi. La parabola di Carolina Kostner si è completata con una fantastica medaglia di bronzo. Prodigio di longevità, a 27 anni in uno sport che brucia e consuma in maniera dannatamente veloce, Carolina si è presa quell'alloro che ancora mancava alla sua straordinaria bacheca. Coronamento di una storia olimpica che è un meraviglioso racconto di sofferenza e di crescita: lei, schiacciata dalle troppe aspettative e dalla sovraesposizione del ruolo di portabandiera a 19 anni e nelle Olimpiadi di casa a Torino nel 2006; e poi in crisi nera sul piano tecnico nella disastrosa esibizione di Vancouver nel 2010; si è saputa rialzare per costruire un quadriennio sensazionale (titolo iridato a Nizza nel 2012 che si aggiunge ai cinque titoli europei vinti in carriera), culminato con questa medaglia olimpica, vinta da donna pienamente matura e finalmente in pieno controllo di sé e delle proprie emozioni. Per colmare anche quell'unico buco che ancora era rimasto nella sua carriera e lasciare un segno assolutamente indelebile nella storia dello sport italiano.
ll talento e la naturalezza di Innerhofer: Argento in discesa libera e bronzo in supercombinata, per Christof Innerhofer le Olimpiadi di Sochi riservano due medaglie profondamente diverse tra loro: voluta, cercata, inseguita la prima; inaspettata, sorprendente, giunta quasi per caso la seconda. Della discesa di Inner resta negli occhi quella parte alta pennellata in maniera inverosimile, con un vantaggio di mezzo secondo su tutti gli altri all'uscita dalla parte più ripida e più tecnica della pista, che all'arrivo diventeranno poi 6/100 di ritardo dal vincitore a sorpresa Matthias Mayer; il bronzo in supercombinata è invece il frutto di una formidabile manche di slalom improvvisata senza allenamenti specifici, ma con la testa libera per lasciar sfogare quel talento naturale, quell'intuito, quella sensibilità sugli sci che Innerhofer possiede in quantità industriali. Tormentato dai continui problemi alla schiena, probabilmente non sarà mai la continuità il punto forte di Inner (e peccato perché altrimenti prima o poi un pensierino alla Coppa del Mondo assoluta avrebbe potuto farlo), ma ha piedi e testa da campione assoluto, ha già vinto tutte le grandi classiche di discesa a parte Kitzbuhel, e a Sochi, dopo le tre medaglie iridate di Garmisch 2011, ha confermato che nei grandi eventi si può sempre contare su di lui. Perché talento e naturalezza sono più forti degli acciacchi.
I podi dello slalom: Sia al maschile che al femminile i podi dello slalom speciale olimpico di Sochi non si dimenticheranno facilmente, per una serie di curiosi incroci anagrafici che li rendono memorabili. Il titolo femminile va al baby fenomeno Mikaela Shiffrin che si conferma un anno dopo il titolo iridato di Schladming e a nemmeno 19 anni diventa la più giovane campionessa olimpica di sempre nella specialità, proprio davanti a Marlies Schild (la slalomista più vincente di sempre in Coppa del Mondo a cui però ancora sfugge l'oro olimpico), in un vero e proprio passaggio di consegne. A livello maschile invece l'austriaco Mario Matt a 34 anni diventa il più anziano campione olimpico nella storia dello sci alpino coronando una carriera lunga, altalenante ma straordinaria (due titoli iridati tra il 2001 e il 2007); mentre al contrario il norvegese Kristoffersen con il suo bronzo a 19 anni diventa il più giovane medagliato di sempre nella storia dello sci alpino. Nel mezzo resta Marcel Hirscher, grande deluso di questi Giochi: solo quarto in gigante e argento in slalom grazie ad una gran rimonta nella seconda manche dopo una prima anonima, lui che nelle ultime tre stagioni è stato straordinariamente continuo nelle discipline tecniche. A 25 anni ha però ancora tempo per rifarsi, come gli dimostra da vicino il poco amato compagno di squadra a cui ha dovuto inchinarsi.
La completezza di Arianna: Portabandiera alla cerimonia di chiusura ed eccazionale trascinatrice, ormai da diversi anni, del movimento dello short track azzurro. Arianna Fontana porta a casa da Sochi ben tre medaglie olimpiche: argento nei suoi 500 metri (dopo il bronzo di Vancouver), bronzo sui 1500 e con le compagne di staffetta (Viviani, Peretti e Valcepina). Arianna dai tempi di Torino 2006, dove prese parte alla staffetta anche allora di bronzo, detiene il record di più giovane medagliata azzurra alle Olimpiadi invernali; a Vancouver recitò da sprinter pura andando a medaglia sui 500 grazie ad una tecnica di partenza particolarmente efficace; qui a Sochi si è dimostrata atleta straordinariamente completa, sfortunata nelle eliminatorie dei 1000 ma capace di andare a podio nella distanza più lunga, i 1500 storicamente un po' più ostici per lei. Insomma una crescita costante, quadriennio dopo quadriennio, che speriamo possa andare avanti per almeno un altro ciclo olimpico.
La salute del biathlon azzurro: A distanza di sedici anni dall'ultima volta (argento di Pier Alberto Carrara nell'individuale di Nagano '98)il biathlon italiano torna a festeggiare una medaglia olimpica; ma non c'è solo questo che ci si porta via da Sochi. Lo splendido bronzo della staffetta mista (Dorothea Wierer, Karin Oberhofer, Dominik Windisch, Lukas Hofer) aiuta ad accendere i riflettori su questo mondo, ma è il movimento nel suo complesso ad uscire con grande fiducia da queste Olimpiadi: è senza dubbio quella di biathlon la nazionale italiana che più ha convinto sulle nevi russe. E il fatto che la medaglia arrivi dalla staffetta mista è una splendida sintesi della salute complessiva dimostrata dal movimento tricolore. Accanto alla medaglia ci sono altri tre risultati individuali tra i primi dieci (Oberhofer e Wierer rispettivamente 4ᵃ e 6ᵃ nella sprint, ancora Oberhofer 8ᵃ nell'inseguimento, con la stessa Oberhofer e Lukas Hofer che nell'individuale con l'errore sull'ultimissimo bersaglio hanno compromesso un piazzamento a ridosso del podio); e con le due staffette che si attestano subito alle spalle delle grandi potenze (seste le ragazze, per 3/4 di gara peraltro da medaglia, e quinti ragazzi). Si tratta peraltro di un gruppo mediamente giovane, con Wierer e Hofer che a 24 e 25 anni sono vicini alla piena maturità agonistica e pronti a recitare da protagonisti nei prossimi anni. Insomma non perdeteli d'occhio nel prossimo quadriennio, potranno farci divertire.
La volata di Charlotte Kalla: L'inopinato crollo del quartetto norvegese e una volata a tre al cardiopalma. La staffetta femminile è stata probabilmente la più bella gara di sci di fondo a queste Olimpiadi, ed ad uscirne vincitrice è stata Charlotte Kalla assieme a tutta la Svezia. Una rimonta furibonda negli ultimi chilometri per recuperare Finlandia e Germania che avevano girato in testa ai 3/4 di gara, e poi ancora la lucidità per scegliere la traiettoria giusta all'ultima curva, presa all'interno e utilizzata come trampolino di lancio nel vincente testa a testa finale con la finlandese Lahteenmaki e la tedesca Hermann: un autentico capolavoro.
Il testa a testa Svendsen-Fourcade: I due biathleti più continui dell'ultimo quadriennio, vincitori di tre delle ultime quattro Coppe del Mondo e duellanti anche per quella attuale che si assegnerà in questo finale di stagione, l'uno contro l'altro nel finale serratissimo della mass start. A spuntarla col brivido è il norvegese Svendsen, che quasi si fa beffare per un'esultanza troppo anticipata; ma nel complesso l'Olimpiade di Sochi sorride maggiormente al francese: Svendsen porta a casa un altro oro nella staffetta mista, ma combina un disastro epocale sull'ultimo poligono della staffetta maschile condannando la sua Norvegia ad un amarissimo quarto posto; mentre Martin Fourcade aveva già conquistato due entusiasmanti ori nell'inseguimento e nell'individuale.
L'oro ucraino: Unico oro ucraino a queste Olimpiadi, e solamente il secondo nella storia dei Giochi invernali. Ma il trionfo della staffetta femminile ha qualcosa di speciale. Il compatissimo quartetto composto dalle sorelle Semerenko, da Dzhyma e Pidrushna vince nelle ore più difficili della crisi che in questi giorni sta sconvolgendo il paese ex sovietico. Senza scivolare sulla retorica e senza confondere piani troppo diversi e distanti tra loro, ma è una gara che ha emozionato in modo particolare, inutile negarlo.
Le staffette mancate: Norvegia clamorosamente fuori dal podio in entrambe le staffette del fondo, sia al maschile che al femminile; e poi ancora in quella maschile del biathlon, in una gara incredibile che a metà sembrava già vinta. Mai in gara la Germania (attardata dalla caduta di Preuss in prima frazione) nella staffetta femminile del biathlon, in un'edizione olimpica in cui per la prima volta nella storia tutto il settore femminile tedesco del biathlon resta a secco di medaglie (con l'ulteriore doccia fredda della positività di Sachenbacher). Insomma le gare a squadre di Sochi di certo non hanno lesinato sorprese.
L'affollato podio del superG maschile: Un podio per quattro nel supergigante maschile e tutti con una storia particolare da raccontare. L'oro di Kjetil Jansrud, che in quattro anni completa la sua trasformazione da gigantista puro (fu argento a Vancouver) ad ottimo interprete della velocità (a Sochi anche bronzo in discesa) mantenendo in Norvegia il titolo olimpiaco del superG per la quarta volta consecutiva dopo i trionfi di Aamodt e Svindal; l'argento assolutamente incredibile dello statunitense Weibrecht, che con una discesa a rotta di collo col numero 29 migliora il già clamoroso bronzo di Vancouver dopo quattro anni senza nessun risultato di rilievo; il bronzo a pari merito tra il canadese Hudec, piedi velocissimi e ginocchia di cristallo con una marea di infortuni alle spalle, e Bode Miller che salva il bilancio della sua ultima Olimpiade dopo aver completamente sbagliato gara in discesa e poi scoppia in lacrime nel parterre al ricordo del fratello scomparso circa un anno fa.
Gli zeri di Northug e Svindal: Due assi norvegesi che tornano a casa a mani completamente vuote. Petter Northug, grande personaggio del fondo dell'ultimo lustro, completa nel modo peggiore una stagione che in realtà non l'ha mai visto protagonista; Svindal invece può solo maledire una forma di allergia che lo ha debilitato proprio in quel di Sochi, costringendolo ad accontentarsi del quarto posto in discesa come miglior risultato. Due passaggi a vuoto che fanno rumore.
I quarti posti azzurri: Sono otto in totale le cosiddette medaglie di legno riservate all'Italia, parecchie non c'è dubbio. Tra tutte lasciano particolarmente l'amaro in bocca i piazzamenti a ridosso del podio di Daniela Merighetti in discesa libera e Nadia Fanchini in gigante. Perché sono medaglie sfumate per pochi centesimi (17 e 11 rispettivamente); perché avrebbero premiato due atlete esemplari per carattere e atteggiamento, che una soddisfazione del genere l'avrebbero veramente meritata. Daniela Merighetti, capace di andare all'attacco alla sua maniera (miglior tempo nella parte più tecnica della pista) pochi giorni dopo una tremenda botta al ginocchio nella prima prova cronometrata; e Nadia Fanchini che le ginocchia le ha dovute ricostruire più volte, che quattro anni fa le Olimpiadi le guardava da casa con entrambe le gambe immobilizzate, che convive quotidianamente con dolori tremendi, che proprio per via dei tanti infortuni ha raccolto senz'altro meno dal talento cristallino di cui dispone e che eppure è ancora sulla pista a lottare: lo scorso anno fu argento iridato in discesa, quest'anno ha trovato gli automatismi giusti in gigante ed è andata vicinissima ad una medaglia che avrebbe meritato come poche. Un vero peccato quegli 11 centesimi.
Il monologo orange: Il pattinaggio di velocità parla solo olandese. Un medagliere monocolore davvero con pochi precedenti nella storia olimpica: otto titoli su dodici; almeno un atleta sul podio di ogni singola gara; un totale di ventidue medaglie e ben quattro triplette. Una nazionale formidabile in cui spiccano i nomi di Ireen Wust, atleta più medagliata di questi Giochi con due ori e tre argenti; Jorien Ter Mors, arrivata a Sochi per puntare soprattutto sullo short track (quarta nei 1500 dietro alla Fontana) e poi esplosa in pista lunga (oro nei 1500 e con il terzetto dell'inseguimento a squadre) dove gareggia solamente da un anno; e Sven Kramer, dominatore delle distanze lunghe che bissa il titolo dei 5000 ma si vede ancora sfuggire l'oro dei 10000 dopo la squalifica di Vancouver, battuto dal connazionale Bergsma dalla pattinata elegantissima.
Il rilancio di Pittin: Dal bronzo di Vancouver al quarto posto di Sochi. Può sembrare un passo indietro, ma per Alessandro Pittin questa Olimpiade è in realtà un enorme passo avanti. Il talento friulano che nel 2010 ad appena 20 anni conquistò la prima medaglia nella storia della combinata nordica italiana, ha disputato a Sochi la sua miglior gara degli ultimi due anni. Vancouver all'epoca sembrava un formidabile trampolino di lancio, ma in questo quadriennio troppo cose sono andate storte per Pittin, tra infortuni e problemi tecnici sul salto che hanno coinvolto l'intera nazionale italiana e hanno portato a radicali cambiamenti tecnici alla fine della scorsa stagione. La medaglia è sfumata in una serratissima volata con il norvegese Krog, nel segmento di salto i conti ancora non tornano del tutto (soprattutto dal trampolino grande) ma questa brillante prestazione olimpica può essere il primo mattone su cui costruire il rilancio di Pittin, che nel 2012 era arrivato a vincere tre gare di Coppa del Mondo consecutive prima di un grave infortunio che lo ha rallentato non poco. Ora si può ripartire.
I russi d'adozione: La Russia trionfa nel medagliere e una grossa mano agli atleti di casa arriva da due russi d'adozione che hanno fatto il pieno di ori. Victor An è il mattatore dello short track maschile, lui che col nome di Ahn Hyun Soo aveva già dominato a Torino otto anni fa. Scaricato dalla federazione sudcoreana, ha trovato "rifugio" in Russia dove ha ricevuto sostegno e un nuovo passaporto, negli ultimi due anni è tornato protagonista e in quel di Sochi ha lasciato le briciole agli altri: due ori individuali (500 e 1000 metri), un bronzo (1500 metri) e trascinatore della staffetta trionfante davanti agli Usa. Vic Wild è invece uno statunitense diventato russo per amore (della collega Zavarzina, a sua volta bronzo in queste Olimpiadi), che cavalcando in maniera spettacolare la sua tavola ha messo a segno la doppietta nello snowboard alpino, vincendo prima il gigante e poi lo slalom parallelo (quest'ultima specialità al suo esordio olimpico).
Il tempismo di Tina Maze: Tutta una stagione a rincorrere, a cercare disperatamente di ritrovare la stessa forma, gli stessi stimoli, la stessa convinzione dello scorso anno, quando in Coppa del Mondo aveva inanellato record su record; e poi ecco arrivare un'Olimpiade trionfale. Tina Maze non ha sbagliato i tempi: a meno di due mesi dai Giochi ha cambiato il tecnico personale e a Sochi ha ritrovato l'incanto dei giorni migliori. Doppio oro per lei: in discesa (ex aequo con la svizzera Gisin) e in slalom gigante. L'unico successo che ancora mancava, a lei e a tutta la sua nazione dato che quello in discesa è il primo oro sloveno nella storia dei Giochi Olimpici invernali.
La rivincita di Davis/White: Stesso identico duello di Vancouver nella danza sul ghiaccio;ma questa volta il vincitore è diverso. Gli statunitensi Meryl Davis e Scott White hanno la meglio sui canadesi campioni uscenti Tessa Virtue e Scott Moir. Due coppie che nel frattempo, tra un'Olimpiade e l'altra, si sono spartiti i due gradini più alti del podio in tutti i quattro Mondiali disputati (due ori a testa); e che a Sochi hanno mandato in scena un duello di eccezionale bellezza, tra eleganza delle esibizioni e livelli record nei punteggi. Probabilmente la più bella gara delle Olimpiadi per la combinazione di contenuto tecnico ed emozionale.
I rimpianti dello snowboard azzurro: Due quarti posti nello slalom parallelo, con Corinna Boccacini e Aaron March; le cadute e gli infortuni di Michela Moioli e Omar Visintin, che avevano tutte le carte in regola per giocarsi le medaglie nello snowboardcross. Non è stata certo un'Olimpiade fortunata per lo snowboard azzurro, movimento che se da un lato è praticamente inesistente nel settore delle discipline acrobatiche (halfpipe e slopestyle), dall'altro meritava senz'altro di più nel settore dell'alpino e del cross. Visintin era l'unico italiano che arrivava a Sochi da leader della propria classifica di Coppa del Mondo; la Moioli a diciotto anni ha già vinto in Coppa e ha dimostrato di non aver paura anche neanche nel grande appuntamento olimpico, senza il contatto con la Jerekova, la caduta e il conseguente infortunio al ginocchio sarebbe stata probabilmente di bronzo. Le occasioni di riscatto non mancheranno.
Marie Poulin, ancora lei: La rimonta più incredibile di queste Olimpiadi è andata in scena nella finale dell'hockey femminile, con il Canada sotto 2-0 a meno di quattro minuti dalla fine, gli Usa che colpiscono un clamoroso palo sul 2-1, poi il pareggio a 55" dalla sirena e la vittoria all'overtime. L'eroina della folle rimonta è Marie-Philip Poulin, 22 anni e già due finali olimpiche decise. É lei ad aver siglato gli ultimi due gol canadesi, ed è sempre lei che quattro anni fa a Vancouver aveva messo a segno la rete decisiva per piegare la resistenza sempre degli Usa. Insomma non sarà ricca e famosa come Sidney Crosby e le altre stelle Nhl che hanno a loro volta bissato il titolo di Vancouver, ma anche lei un posto nella storia dello sport canadese se lo è meritato. E per ben due volte.