Esistono storie difficili, se non impossibili da raccontare, esistono storie che hanno lasciato un vuoto incolmabile all'interno di ogni singola persona, esistono storie che non dovrebbero nemmeno essere raccontate e mai dimenticate. Storie vere, La strage dell'Heysel.
Un pomeriggio, anzi una giornata di ordinaria follia, una finale di Coppa dei Campioni trasformata in un campo di una guerra illogica e senza valori (Perchè la guerra non ha valori) che ha strappato alla vita 39 tra donne, uomini e bambini che hanno visto il loro sogni crollare come il muro del settore Z.
Alle dieci di mattina del 29 maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano, molti dormivano usando come cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le bottiglie scolate venivano lanciate in terra come bombe a mano, oppure in aria, per gioco. “Prima di mezzogiorno facemmo il sopralluogo allo stadio e ci mettemmo le mani nei capelli : era vecchio, decrepito, e pareva un cantiere. C’erano legni dappertutto, sembravano clave”, ricorda Giampiero Boniperti. Non è vero che lui abbia pensato solo alla coppa, alla vittoria, alla bacheca. “Io li ho visti i morti, tutti in fila all’obitorio come in guerra. Me li ricordo i Casula, papà e figlio, uno vicino all’altro. Me li ricordo tutti. E non volevo giocare: mi dissero che non si poteva, che altrimenti sarebbe stato un disastro anche peggiore”.
Il cielo dietro il settore Z era color aranciata, e pareva il riverbero del rosso delle bandiere inglesi, delle maglie, delle canotte, delle pitture sui volti stralunati e strafatti di chissà cosa. Alle 7 di sera paradossalmente si stava benissimo, c’era un fresco primaverile. La prima onda sembrò quasi un’illusione ottica, come se L’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse agitando per scrollare qualcosa . I rossi si spostavano verso i bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale come fossero mettallo attirato da una calamita . E nell’aria volavano clave, aste e persino qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato di rimuovere a causa dell'inesistente organizzazione.
La seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dal V), e le persone si rotolarono addosso. Tutti morirono per schiacciamento, soffocando, calpestati. “Ci sono dei morti” fu la prima frase che cominciò a circolare in tribuna stampa. Allo stadio arrivò l’Avvocato Agnelli: fermarono l’auto sotto la tribuna, gli dissero cos’era successo, lui tornò in macchina e ripartì. Invece suo figlio Edoardo era rimasto sul prato, come inebetito. "Non riuscivamo a distoglierlo dall’orrore, alla fine l’ho fatto rientrare negli spogliatoi urlando di non muoversi di lì”, ricorda Boniperti.
Da li inizia la tragedia, l'Heysel diventa un campo di guerra, milioni di italiani alla Tv con il fiato sospeso perchè in mezzo a quell'orrore poteva esserci un figlio, un marito, una moglie, qualsiasi cosa da rendere quel giorno un inferno a tinte rosse per chiunque.
Poi si udì dall’altoparlante una specie di sospiro. La voce di Gaetano Scirea “la partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi”.
Mancavano appena quattro anni allo schianto di Gaetano su una strada polacca. “Io parai tutto, come in trance”, dice Stefano Tacconi. “Non ricordo niente, solo una concentrazione che non era normale, era di più. Dentro avevamo cose che non si spiegano, non
si raccontano e non si conoscono”.
Non esiste la razionalità per queste cose, non c'era bisogno di ragionare quel giorno per nessuno dei sessantamila presenti. E forse non c'era nulla da festeggiare.
Vinse la Juve grazie a un rigore inesistente: fallo su Boniek fuori area, gol di Platini. Davanti alla tribuna stavano i morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie. C’era tanto sangue, e gole aperte.
Assurdi gendarmi a cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in una comica di Ridolini. La tv diede l’esatta misura della mostruosità, ma sul posto le cose erano diverse : i tifosi avevano capito, però non potevano sapere dei 39 cadaveri. Neanche i giocatori lo sapevano, tutto aveva i contorni sfumati del sogno.
Tanta gente metteva bigliettini con numeri di telefono in mano ai giornalisti, implorando che chiamassero casa per dire “suo figlio è vivo, suo marito sta bene”. E così andò. Dalla tribuna partirono telefonate in tutta Italia. Ancora non esistevano i cellulari e le email. Alla fine tutti si sentirono vuoti, sfiniti, perduti.
Poi tutto svanì. La Juve vinse la Coppa, in una partita che non doveva neanche disputarsi perchè non si giocano partite in trincea.
E quelle 39 anime che adesso non si sa siano vegliano sui loro cari ancora increduli e ciò che deve rimanere nel cuore e nella mente di tutti è che il calcio( come ogni singolo sport) deve essere sinonimo di unione, di democrazia e passione perchè se tutto ciò si trasforma in tragedia come quel dannato 29 Maggio 1985 allora l'uomo ha fallito. Ancora.
Mai più un altro cimitero in uno stadio.