Ancora una volta la massima accreditata a Coach Bear Bryant si è rivelata corretta. La difesa ha battuto l'attacco. Ma al di là degli aspetti tecnici, ha prevalso un certo modo di intendere il football. L'esuberanza è uscita a pezzi contro l'esperienza e la coscienza nei propri mezzi.

I Carolina Panthers arrivavano al Super Bowl con tutti i favori del pronostico, carichi di aspettative dopo aver surclassato e deriso ogni avversario incontrato sul proprio cammino. 15-1 in stagione regolare, un dominio. Esaltazione generale, balletti, battutine e ogni genere di star a salir sul carrozzone. Certo le qualità tecniche si sono viste, nessuno lo ha mai messo in dubbio, ma la stagione dei ragazzi dell'ottimo coach Rivera è stata viziata da un calendario morbido. La schedule 2015 prevedeva gli scontri con la AFC South e la NFC East, oltre che con i rivali divisionali abituali e l'accoppiata Packers Seahawks. A conti fatti, il cammino di Carolina si è rivelato il più semplice tra le qualificate al Divisional Round. AFC South e NFC East si sono dimostrate le Division più deboli. Con la brutta stagione dei Saints, la NFC South è stata decimata e il calendario ha permesso ai Panthers di affrontare Green Bay e Seattle nel periodo peggiore delle rispettive stagioni. Tutti abbiamo sopravvalutato i reali meriti del roster, mai veramente messo alla prova. Inoltre la stampa ha elevato il QB Newton a personaggio emergente della lega, materiale da esportazione al di fuori dell'ambito sportivo, portandolo a comportamenti spesso sopra le righe, non apprezzati dagli avversari. In questo turbinio di successi e fama crescente, Superman si è trascinato dietro i compagni, perdendo, probabilmente, contatto con la realtà del campo e le proprie effettive capacità tecniche. Ron Rivera ha lasciato fare per non alterare gli equilibri delicati in un roster da 53 super agonisti. Errore, alla fine della fiera, fatale. 

Fatale perchè nell'attto conclusivo della stagione i Panthers si sono trovati di fronte la squadra del destino, piena di gente affamata e guidata da due uomini esperti e consci dei propri limiti, ma anche delle proprie potenzialità. Gary Kubiak e Peyton Manning sono stati i comandanti perfetti di un gruppo compatto, tosto e ben assortito. Coach Kubiak, un uomo colpito duramente dalla vita, ha saputo infondere la giusta mentalità ai suoi uomini, nonostante fosse stato messo ai margini da tutti gli Executive Office dopo il 2013. Ha ripagato la fiducia di John Elway, ha infuso determinazione a veterani come Demarcus Ware, forgiato ragazzi come Von Miller e ridato fiducia a Manning. 

Fiducia che è stata fondamentale al Levi's Stadium. Peyton Manning ha saputo gestire le sue forze, mostrandosi sempre saldo, quando, in realtà non lo era. Non poteva esserlo per tanti motivi. I suoi compagni, però, si sono fidati di lui e lui non li ha traditi. Questo comportamento saldo, da condottiero, nonostante il Sunset Boulevard ormai imboccato da tempo, ha permesso alla difesa di trovare le energie per mantenere ogni centimetro di campo, placcare oltre le proprie possibilità e resistere ad ogni down. 

In fondo, come insegnava il grande Vince Lombardi, sono le motivazioni che fanno la differenza. Denver le ha ritrovate, Carolina le ha smarrite per strada, perdendosi in comportamenti selfish e troppo hollywoodiani. Ha riassunto perfettamente la situazione Bradley Roby a fine gara: "per due settimane tutto ciò che abbiamo ascoltato era Cam di qua, Cam di là, dab qua, dab là -ha puntualizzato la safety dei Broncos- è stato irriguardoso. Noi volevamo soltanto vincere e dimostrare di essere i più forti". 

Superman si è sciolto di fronte alla Kryptonite del sacrificio e del lavoro duro, alle volte poco spettacolare, ma tremendamente efficace. È stata una lezione dura, amara, ma il tempo è dalla parte dell' MVP. A patto di comprendere gli insegnamenti. La conferenza stampa post-gara, però, non è stata un buon inizio. 

La dura legge del campo da football ha ricordato ancora una volta a tutti che quello che conta di più è riuscire a conquistare, con fatica, tutti i pollici, uno ad uno, fino alla end zone. Senza distrazioni.