Linkin Park - One More Light: la recensione di Vavel Italia
La copertina di One More Light - foto di itunes.apple.com

Nel lontano 2010, i Linkin Park pubblicavano A Thousand Suns, album destinato a dividere in quanto abbandonava quasi completamente il metal in favore di un pop rock decisamente elettronico; ai tempi, tale trasformazione sconvolse e divise, ma resta un ottimo esempio del fatto che ammorbidire il proprio sound non sempre è sinonimo di calo artistico, bensì anche di evoluzione. Dopo Living Things, anello di congiunzione tra il passato recente e quello più diretto degli esordi, Mike Shinoda e compagni avevano optato con The Hunting Party (2014) per un clamoroso ritorno al metal, in particolare un alternative piuttosto efficace e al tempo stesso diverso da lavori come Hybrid Theory e Meteora.

Ma nel 2017, alla soglia dei vent'anni di carriera, gli statunitensi vogliono ancora stupire, e ancora una volta dirottano verso l'orizzonte del pop da classifica; questa volta, però, il risultato è estremamente negativo. Inutile fare paragoni con il passato: dei Linkin Park che furono rimane solo la voce di Chester Bennington, l'unico protagonista insieme ai campionamenti di Joe Hahn (per intederci, niente di più innovativo di quelli che si sentono in qualsiasi canzone che passi per la radio al giorno d'oggi). One More Light si presenta come un insieme di dieci canzoni molto simili tra loro e inserite in tracklist senza un'apparente ordine logico: l'opener Nobody Can Save Me è una ballad, la seconda traccia Good Goodbye non è altro che una tipica canzone di rap americano, nonché uno dei pochi momenti in cui Shinoda si fa vivo nel corso dell'album. Tra i pezzi più negativi degli altri, sicuramente è da segnalare il singolo Heavy, realizzato in collaborazione con la piattissima Kiiara, che aveva lanciato il campanello d'allarme in merito alla direzione intrapresa dal gruppo per questo nuovo disco, Invisible, che è un tentativo mal riuscito di emulare gli Imagine Dragons (così come Sorry for Now, cantata da Shinoda e la title-track, due brani veramente insipidi) e la taylorswiftiana Halfway Right.

Tuttavia, nel disastro generale, due pezzi si salvano: in primo luogo la chiusura tranquilla di Sharp Edges, una di quelle canzoni che per la loro semplicità in spiaggia suonano tutti, anche quelli che non sanno tenere in mano una chitarra, ma che riesce nell'intento di chiudere l'album con un mood rilassato; inoltre è quantomeno sufficiente anche Talking to Myself, nulla di diverso dal resto del disco, ma perlomeno è dotata di un giro armonico e una melodia che risultano orecchiabili senza diventare fastidiosi. Un piccolo successo in un mare - sì, proprio quello dell'inutile copertina - di idee scadenti.

In conclusione, era difficile fare peggio di così per il sestetto, con un lavoro che abbassa di netto il livello della discografia dei californiani. Una collezione di brani scritti male e con un'attitudine sempre inclinata verso una ricerca ostinata (e fallimentare) del singolo perfetto, ma che solo in due casi porta a dei pezzi in grado di non risultare scialbi e insopportabili.

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