Nojaltri italiani, sempre a farci riconoscere per la guasconeria colla quale ci approcciamo con incoscienza a occupazioni che richiederebbero skills et cervella, ecco: nojaltri, siam campioni, di schettinismi.
Piglia Richino - dev'esserci qualcosa nei cognomi in ino: fa il tipografo nella Buenos Aires di un centinaio d'anni fa. Un giorno gli commissionano la stampa d'uno stemma per una squadra di calcio, si sarebbe dovuta chiamare El Huracán. E Richino che fa? Si lascia sopraffare dalla faciloneria: Club El Uracàn, ci scrive. E allo sbigottimento dei committenti fa spallucce, cinguetta eh, vabbè, chessaràmmài, per un'acca.
Il Club Atlético Huracán è la sesta squadra argentina per popolarità, e ha come simbolo il Globo aerostatico omonimo che con l'ingegnere Newbery alla guida, nel dicembre del 1909, attraversò in volo i cieli di Argentina, Uruguay e Brasile. La simbiosi tra palla e pallone è del 1914, quando risalendo di tre categorie - tre, come i paesi traversati da Newbery - El Globo - ormai la chiamavan tutti così, la squadra - approdò nella massima categoria: avevano compiuto una grande impresa, i calciatori e l'ingegnere, grande come la grandezza connaturata nella parola Tifone, che infatti termina per one, mica per ino.
Nell'Huracán, che tu ci creda o meno: ha giocato Alfredo Di Stéfano. Quel Di Stéfano. Chi non ci ha mai giocato, invece, ma per poco, per un refolo che ha portato il Globo fuori rotta, è Valentino Mazzola. Quel Mazzola. L'anima e cuore del Grande Torino aveva appreso da un giornalista argentino la storia meravigliosa del Globo di Newbery. E poi, gli avevano raccontato, in quella squadra ci giocavano Di Stéfano. Ed Herminio Masantonio.
I sapori, per la strada, hanno l'aroma inconfondibile del fumo, della birra. Della gioia. A Buenos Aires c'è una via, una volta si chiamava Calle Grito de Ascencio, oggi Calle Masantonio, la prima strada mai intitolata a un calciatore in Argentina, matupènsa; in quella via c'è un fruttivendolo, vende zucchine, melanzane, cetrioli, fino alle diciotto. Poi abbassa le saracinesche, caccia fuori una griglia, accende il fuoco nel bidone mezzo arrugginito, piglia una cassa di Quilmes, salsicce, gran tagli di bove, e prepara l'asado pei passanti.
L'asado è gran buono, però vedi: impieghi del tempo, a prepararlo. Il cibo di strada non deve essere veloce. Non è tipo piglia mangia scappa. Al cibo, in strada, il sapore glielo conferisce la convivialità: i sorsi lenti dell'attesa. Le ciarle. La gioia, insomma.
A New Orleans, nei giorni in cui è previsto il passaggio d'un uragano, d'un tifone spaventevole, per i viottoli si spande l'aroma del cajun gumbo, o della jambalaya. Piatti creoli, Santa Trinità del sedano-cipolla-peperone, che cuociono a fuoco lento sui bidoni, fin quando il vento non s'eleva maestoso, e se non vuoi volar via come un globo aerostatico fors'è meglio che ti rintani dentro le case dai tetti bassi. Là, dentro quelle case, che poi sono la strada fuori dalla strada, si balla si canta e ci si ritrova. Si pregano gli orishas che non ti portino via tutto. Ma soprattutto: si mangia. S'inganna a sorsi lenti l'attesa. Si mastica a morsi piccoli la speranza. Davanti alla jambalaya passa pure lo spavento.
Mazzola era mica spaventato dall'idea di traversare l'oceano per giocare in Argentina, anzi; aveva confidato a un giornalista di Goles che gli sarebbe proprio piaciuto, indossare la maglia dell'Huracán. E s'erano pure messi in contatto, la società bonaerense e Valentino. Gli avrebbero fatto un gran tifo, dalle parti di Parque de los Patricios, a Valentino. Un tifone. E una volta assaggiato l'asado, laggiù, pancia a pancia col popolo, chi lo sa se Mazzola sarebbe mai tornato.
Poi Superga, un uragano di fiamme: mica sempre s'atterra, una volta decollati. Mica è sempre detto che gli Orishas le accolgano, le tue preghiere.
Maledizione, maledizione.