Evoluzione è un concetto che nella musica di oggi non sempre è ben accetto: cambiare il proprio sound genera sgomento tra i fan più accaniti di un artista, senza tenere conto del fatto che, in fin dei conti, senza le “microevoluzioni” di molteplici musicisti, non si sarebbe delineata la storia della musica leggera. Evoluzione, quindi, è anche un’arma a doppio taglio: è un termine che affascina, come a voler garantire qualità nei lavori che la rappresentano, di conseguenza tale qualità dev’essere effettivamente ritrovata nell’album o nella canzone in questione.
Gli Imagine Dragons si sono presi l’enorme rischio di dichiarare in pompa magna una loro evoluzione, chiamando il loro nuovo lavoro proprio Evolve. Quest’ultimo esce a due anni dal piccolo capolavoro pop rock qual è Smoke and Mirrors e già dal singolo Believer si è capito che la proposta sarebbe stata più orientata verso l’elettronica e meno intrisa di chitarre (senza pezzi alla Friction, insomma). L’album si apre con I Don’t Know Why, pezzo caratterizzato da una strofa con suoni molto aperti che improvvisamente si chiudono nel ritornello, in un'opener perfetta per immettere l’ascoltatore nel vortice di tastiere qual è questo Evolve. Un brano più canonico per Dan Reynolds e compagni è Whatever it Takes, niente di particolare ma piacevole da ascoltare grazie allo stile del suddetto cantante, protagonista principale di molti brani. Il già citato singolo Believer è una canzone blueseggiante che svolge il suo compito alla perfezione con batteria elettronica e un’impronta molto minimale. I primi aspetti negativi si trovano nei due pezzi successivi: Walking the Wire e Rise Up sono due pezzi fin troppo banali e alla lunga stancano. Ben diverso il problema di I’ll Make it Up to You, canzone spiegabile solo se fosse stata scritta almeno venticinque anni fa, completamente anacronistica per quanto ascoltabile.
La seconda parte dell’album, che fin qui soddisfa a metà, comincia con Yesterday, un palese omaggio ai Beatles (non solo nel titolo, anche nel mood alla Sergent Pepper’s): il brano dimostra che, a dispetto di quanto visto nelle prime tracce, la band è ancora capace di sperimentare nuovi orizzonti – per quanto riguarda il proprio stile - , come tanto aveva fatto nel precedente e già citato Smoke and Mirrors. L’album torna subito sui suoi livelli standard con Mouth of the River, che comunque è uno dei pezzi più riusciti del lotto, ricordando molto l’esordio della band (Night Visions, 2012). Particolare è il nuovo singolo lanciato, in vista dell’estate: Thunder ad un primo ascolto sembra un brano inconcludente, ma bastano pochi ascolti per diventare assuefatti dalla voce campionata del ritornello. Il disco si chiude con la sincopata Start Over, piacevole traccia con un groove molto simile alla loro vecchia Summer, ma meglio orchestrato, e con la noiosa Dancing in the Dark.
L’album di per sé appare incompiuto, come se potesse dare molto di più di quello che effettivamente offre; sicuramente rispetto ai primi due album, questo è nettamente inferiore: mancano i pezzi a sorpresa, così come quelli dal mood estremamente positivo (I Bet My Life, On Top of the World). Ma soprattutto, quale sarebbe l’evoluzione? Più che un miglioramento, sembra che la band si sia accostata maggiormente all’electropop e standardizzata nelle melodie e nelle armonie, il che lascia un certo retrogusto amaro, nonostante il lavoro sia positivo. Se con i primi due lavori gli Imagine Dragons sembravano destinati a diventare gli Imagine Dragons, ora rischiano di diventare i nuovi Coldplay. Già, l’evoluzione è un’arma a doppio taglio; dichiararla dove non è presente, invece, è una pessima mossa di marketing.