Gorillaz - Humanz: la recensione di Vavel Italia
La copertina di Humanz - foto di xtm.it

Tra i progetti più interessanti degli ultimi vent'anni figurano senza dubbio i Gorillaz, una band di personaggi virtuali nata dalla collaborazione tra il fumettista Jamie Hewlett e Damon Albarn, già leader dei Blur, che ha sempre utilizzato tale progetto come valvola di sfogo per il proprio sperimentalismo più acuto. Giunto al quinto lavoro, Humanz, il cantante britannico imprime alla sua creatura una direzione totalmente nuova, combinando l'elettronica già presente nei dischi precedenti ad una chiara celebrazione della black music, la quale rappresenta proprio il filo conduttore di tutto l'album.

Come ha dichiarato Albarn in un'intervista, "Humanz" è stato scritto nel 2016 immaginando un mondo futuro in cui Donald Trump sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti (nonostante ogni riferimento sia stato omesso dall'artista) ed è, manco a dirlo, intriso di una vena pessimistica nei confronti della società: non è un caso che al centro del lavoro ci sia proprio la musica nera, oltre alla presenza di numerosi riferimenti al razzismo.

Il confine tra l'omaggio e il kitsch è, in ogni caso, molto labile: in più di un episodio non bastano le basi infarcite di elettronica per nascondere all'ascoltatore un senso di vintage forzato, di riesumazione fine a se stessa di forme ormai trite e ritrite; la black music di Albarn non ha la carica né l'originalità di quella riportata in vetta alle classifiche da Kendrick Lamar, e per questo motivo Hallelujah Money risulta noiosa con i suoi richiami al gospel d'annata, Submission suona di già sentito così come Strobelite e Andromeda, in una ricerca ostinata dell'elettronica per coprire le chiare influenze che caratterizzano l'intera opera. Inoltre, non tutti gli ospiti (davvero tanti) rendono al meglio delle loro possibilità: di sicuro ci si aspettava di più da De La Soul, già collaboratore negli album precedenti, che in Momentz non riesce a influire positivamente sul beat comunque non eccelso, ma delude anche una figura del calibro di Benjamin Clementine nella già citata "Hallelujah Money".

Tuttavia, questo nuovo lavoro targato Gorillaz non è assolutamente da buttare; le tracce in cui si sente maggiormente la voce di Albarn (o 2D, così com'è chiamato il suo alter ego all'interno del gruppo), sono tra le più riuscite: Charger con la sua base quasi ossessiva colpisce al primo ascolto, mentre Busted and Blue rappresenta un ottimo momento di pausa dai dub che caratterizzano il disco. Notevoli inoltre altri tre brani, frutto di collaborazioni di successo: è il caso di We Got the Power con Jehnny Beth, dell'esplosiva opener Ascension con un Vince Staples in gran forma e del pezzo più corto dell'intero album - se si escludono gli intermezzi -, ovvero Carnival con Anthony Hamilton, che presenta venature trip hop sulle quali si inserisce alla perfezione la voce del prestigioso ospite.

Tirando le somme, "Humanz" non è un disco che accontenterà tutti: è un lavoro ben fatto ma con evidenti limiti, un ritorno in pompa magna riuscito solo a metà; è un capitolo della saga dei Gorillaz in cui Albarn si eclissa e lascia parlare gli ospiti, proprio a scapito dello stile che, nonostante le diverse sperimentazioni, aveva reso inconfondibile il progetto nato ormai quasi vent'anni fa quasi per gioco. Impossibile prevedere se sarà questa la direzione futura della band virtuale più famosa al mondo, ma è innegabile che resterà un album controverso nella discografia della stessa, in bilico tra la modernità e il richiamo di un passato già scaduto.

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